I diritti umani al tempo dell’immigrazione

Esiste un modello italiano di integrazione? La prossimità garantisce davvero la convivenza pacifica e la tutela delle persone straniere e dei servizi a loro dedicati. Nella giornata della Dichiarazione universale dei diritti si confrontano buone e pessime pratiche
Razzismo

Il 10 dicembre del 1948 a Parigi veniva firmata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, una carta che senza dubbio ha tracciato un solco importante in questi sei decenni. Si deve riconoscere che i diritti dell’essere umano sono tornati alla ribalta con forza anche per i flussi migratori che mettono a nudo una duplice criticità. Da un lato, infatti, i flussi migratori sono spesso determinati dalla mancanza di diritti, dell'individuo come delle comunità, nel Paese o nel contesto di origine; dall'altro, i flussi migratori stessi provocano discriminazioni e difficoltà di integrazione nei luoghi di approdo. All’interno del mondo globalizzato le società sono sempre più multietniche e multiculturali, ma a fatica camminano verso un incontro che le trasformi in interetniche e interculturali.

Proprio ieri, l’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) a Palazzo Valentini, sede della provincia di Roma. ha chiesto agli stessi immigrati di raccontarsi a partire dalle comunità di origine.  Si sono avvicendati più di venti oratori, provenienti da Nigeria, Cameroun, Moldavia, Ucraina, Eritrea, Pakistan, Marocco, Messico, Senegal, Brasile, Romania e molti altri, compresa l’Italia. Anche le professioni hanno offerto uno spaccato variegato: studenti universitari, badanti, imprenditori, mediatori culturali, musicisti, sindacalisti,  formatori.

Le storie personali brevi e incisive andavano dal medico ucraino costretto a fare il badante in Italia perché il suo titolo non è riconosciuto, a quello maghrebino che ha dato vita a un'associazione di medici stranieri nel nostro Paese. Poi c'è la signora moldava arrivata per fare la badante che sta invece completando un master in intercultura. E c'è la brutale discriminazione razziale: un mediatore culturale di origine africana non poteva usare i servizi né degli insegnanti né degli alunni. Si è parlato anche dell’emigrazione degli italiani all’estero, ma anche di guerre e di detenuti stranieri nelle carceri italiane, mentre è spesso la burocrazia ad acuire i problemi della quotidianità degli stranieri.

Ovviamente, resta ancora molto da fare, soprattutto a livello di sensibilizzazione dell'opinione pubblica e di impegno delle amministrazioni, oltre che di riconoscimenti istituzionali e giuridici. Tuttavia, l’impressione che si è ricavata al termine della mattinata è stata quella di un grande laboratorio dove, dalle scuole elementari alle realtà dei quartieri e dei municipi, esiste un impegno deciso supportato da azioni spesso spontanee e di volontariato. Si conferma l’idea, che molti sociologi sottolineano, di un modello italiano all’integrazione. Si tratta di quello che viene definito "il modello di prossimità" che si gioca nel quotidiano, nei condomini, nei mercati, sui mezzi pubblici e nelle scuole.

A Palazzo Valentini c'erano anche i bambini del Centro didattico interculturale Celio Azzurro che hanno animato l’assemblea con cartelloni interessanti: «Il gioco è bello se giochiamo tutti», «Io sono del Ghana, dell’Italia e della Roma», «Alla scuola mia ci sono tutti i bambini del mondo». Come giustamente è stato osservato i diritti dei bambini non hanno confini etnici, culturali e religiosi, sono universali e garantiscono quelli dei grandi. L’esperienza del Celio Azzurro è un esempio davvero sostenibile di una metodologia didattica. Valorizza le differenze culturali come risorse e apre alla formazione di generazioni italiane con culture di provenienza, colore della pelle, religioni professate diverse, ma tutte preziosi contributi di una potenziale Italia più ricca.

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