I dilemmi di Macron e di Meloni dopo le elezioni

Il presidente francese alle prese con la vittoria annunciata del Rassemblement National (RN) alle elezioni legislative con il Fronte popolare delle sinistre in seconda postazione. Giorgia Meloni deve decidere la strategia da seguire all’interno dell’Unione europea tra sostegno a von der Leyen e nuove alleanze a destra
Da sinistra la presidente uscente della Commissione europea von der Leyen, il presidente francesce Macron e la premier italiana Meloni. Foto Ansa, Palazzo Chigi, Filippo Attili.

In Francia l’estrema destra si chiama Rassemblement National (RN), un partito che è risultato il più votato oltralpe nelle ultime tre elezioni europee, le uniche consultazioni francesi con il sistema proporzionale.

Il 9 giugno, la sera delle elezioni europee, dopo una nuova, netta vittoria del RN (31,4%, contro il 14,6% della coalizione presidenziale), il presidente Macron ha sciolto il parlamento francese, l’Assemblée Nationale, e indetto elezioni anticipate.

Una scommessa rischiosa, fatta puntando su un colpo di reni dell’elettorato francese, che con senso di responsabilità avrebbe dovuto invertire la tendenza e ridare a Macron una maggioranza in parlamento (dal 2022 il partito del presidente non dispone di una tale maggioranza e governa con l’appoggio esterno della destra moderata – Les Républicains).

Nulla di tutto ciò: la scommessa, azzardata, Macron l’ha persa su tutta la linea ed ha anzi conseguito il risultato opposto: al primo turno, domenica 30 giugno, si sono consolidate le opposizioni, il RN al 33,14% e la coalizione sinistra-verdi del Nuovo Fronte Popolare (NFP) che ha fatto registrare un sorprendente 27,99%. L’anemico progresso della coalizione presidenziale (20,76%) rispetto alle europee non riuscirà a garantire al presidente un governo amico dopo il secondo turno, il 7 luglio.

Sì, perché in Francia alle legislative si vota in collegi uninominali a doppio turno. Sono eletti al primo turno i candidati che superano il 50%: ce l’hanno fatta 39 del RN, appena 2 della maggioranza presidenziale, e 31 del NFP. Passano al secondo turno i candidati che raggiungono almeno 12,5% dei consensi. Se alle ultime elezioni, nel 2022, solo in 8 circoscrizioni 3 candidati si erano qualificati al secondo turno, oggi i “triangolari” al secondo turno riguarderanno una buona metà dei collegi.

Macron è sin d’ora politicamente spacciato: non disporrà in ogni caso di una maggioranza in Parlamento e gli ultimi anni della sua presidenza – logorato da un governo ostile – si annunciano estremamente difficili, a meno che non decida di dimettersi, cosa che per il momento esclude. Ha però ancora una scelta, pur dolorosa: cercare a tutti costi di evitare una maggioranza dell’estrema destra in Parlamento, ritirando i candidati della coalizione presidenziale dai triangolari del secondo turno, che diventerebbero così un duello secco estrema destra-sinistra, oppure cercare di salvare il salvabile del suo movimento, che potrebbe ottenere tra 90 e 125 seggi su 577. La prima opzione del dilemma cui è confrontato Macron è forse l’unica possibilità per evitare che la seconda economia dell’Unione europea (Ue), e l’unico Paese Ue con la bomba atomica, sia governato da una forza politica non solo antieuropea, ma anti-atlantica.

Certo, è sempre possibile che un partito nazionalista si converta in forza politica rispettabile, che fa sfoggio di buone maniere democratiche ai tavoli e nei circoli che contano. Appare tuttavia improbabile che ciò accada al RN. Se in Italia Fratelli d’Italia (FDI) che, pur anti-europeo, è sempre stato atlantista, ha veleggiato per anni intorno al 4%, lontano dalla luce dei riflettori, e, una volta vinte le elezioni, ha potuto farsi scoprire come forza di governo moderata, con una repentina giravolta pro-Ue (noto, e per certi versi clamoroso, è il rapporto sapientemente coltivato tra la presidente della Commissione europea Ursula von del Leyen, esponente dei popolari europei, e Giorgia Meloni), è difficile che il RN intraprenda una tale metamorfosi.

Si tratta infatti di un partito che, oltre a avere legami storici, anche finanziari, con la Russia, ha una posizione consolidata al Parlamento europeo da varie legislature, da cui esercita un’opposizione, senza se e senza ma, all’Ue e alle sue politiche.

Meloni stessa si trova a confrontarsi con un dilemma, certo meno tragico di quello che ha di fronte Macron. Il suo gruppo politico, i Conservatori e riformisti europei (CRE), è oggi la terza forza al Parlamento europeo, ma è rimasta fuori dai giochi delle nomine per i posti che contano ai vertici delle istituzioni Ue, che si sono spartiti, come d’abitudine, popolari, socialisti e liberali, le tre forze politiche tradizionalmente pro Unione Europea. In cosa consiste il dilemma della presidente Meloni? I capi di Stato e di governo dei Paesi Ue hanno scelto von del Leyen come presidente, per un secondo mandano, della Commissione europea. Scelta che sarà sottoposta, il 18 luglio, al voto del Parlamento europeo, dall’esito non scontato, dato che è poco probabile che popolari, socialisti e liberali dispongano di una maggioranza sufficiente. Meloni sarebbe tentata di votare a favore della Commissione von der Leyen, messa sotto pressione in questo senso anche dal ministro Tajani (Forza Italia fa parte dei popolari europei), voto che porterebbe probabilmente in dote un portafoglio di peso per il futuro commissario italiano.

Il sostegno alla Commissione von der Leyen potrebbe però costare caro al CRE, che ha già perso la possibilità di annettersi i 10 parlamentari del premier ungherese Viktor Orbán, dopo aver accolto tra le sue fila il partito romeno, da Orbán considerato anti-ungherese, dell’Alleanza per l’Unione dei Romeni.

Se Meloni votasse a favore della Commissione, l’esodo dal CRE dei 18 parlamentari europei del polacco Diritto e Giustizia, con cui già esistono forti tensioni a causa della corrispondenza di amorosi sensi tra Meloni e popolari, diventerebbe inevitabile, e il CRE si ritroverebbe ad essere non più il terzo, ma il sesto partito al Parlamento europeo.

Il potere, quindi, che Meloni avrebbe acquisito da un lato sostenendo la maggioranza Ursula 2.0, lo perderebbe dall’altro ritrovandosi FdI (con 24 seggi) partito di maggioranza in un gruppo politico con un’influenza estremamente ridotta in seno al Parlamento. Il che dimostra che, quando si viene dall’estrema destra, si tratti dei FdI o di RN, la normalizzazione si può tentare e può anche in qualche modo riuscire ma si rimane comunque, sostanzialmente, fuori dal sistema di potere che prevale in Europa.

Almeno per il momento. Fino a che, l’avanzata, che sembra inarrestabile, delle destre estreme, sull’onda del malcontento popolare che divampa in un numero sempre maggiore di stati membri dell’Ue, ci consegnerà un’Europa radicalmente diversa da quella che conosciamo. Il prossimo governo francese potrebbe esserne un precursore.

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