I cristiani? Creativi per vocazione!
Sono passati tre mesi dal convegno di Firenze che ha segnato una tappa importante per la Chiesa italiana. Quale le sembra il lascito più significativo di quest’assise?
«Il Convegno fiorentino è stata innanzitutto una bella esperienza di Chiesa sinodale. Un’occasione davvero preziosa nella quale abbiamo sperimentato, fin dal percorso di preparazione e ancor più durante i lavori del convegno, il fascino e la ricchezza di un modo di essere Chiesa nel quale ciascuno, laici, sacerdoti, consacrati, pastori, è stato una voce ascoltata e un ascoltatore attento. Ma il Convegno di Firenze verrà ricordato come una tappa davvero importante per la Chiesa italiana solo se sarà stato capace di accelerare e rendere più profondo il processo di ripensamento in chiave missionaria intrapreso con qualche fatica e lentezza da tutta la Chiesa italiana sulla scorta della spinta impressa da papa Francesco. Solo se sarà stato capace, dunque, di fare emergere in maniera sempre più marcata il volto di una Chiesa che ama l’uomo come lo ama il suo Signore: gratuitamente e smisuratamente. Per questo è importante che dopo Firenze ci sia un “dopo Firenze”, che non ci si accontenti di rilegare il Convegno “tra le cose fatte”».
Papa Francesco ha espresso più volte la sua preferenza per una Chiesa inquieta, incidentata, una Chiesa col volto di mamma. Nel quotidiano, lei vede segnali che vanno in questa direzione? Quali passi sarebbero necessari e possibili nell’immediato?
«Come ha giustamente ricordato il card. Bagnasco a Firenze, non partiamo da zero. Sono tantissimi gli esempi di generosità e apertura solidale che caratterizzano la vita delle comunità parrocchiali, delle diocesi, delle associazioni, dei movimenti e dei gruppi. Una ricchezza straordinaria per il nostro Paese. Moltissime sono anche le esperienze di vera e sincera ricerca dell’incontro con l’uomo di oggi, con i suoi problemi, i suoi desideri, le sue gioie e le sue fatiche. Non dobbiamo guardare a quanto è stato fatto fino ad ora in chiave negativa, pensando al cammino della Chiesa in questi anni come a un bagaglio ingombrante di cui disfarsi. Al contrario: guardiamo ad esso con gratitudine, come a un grande patrimonio da custodire e far fruttare. Al tempo stesso, dobbiamo essere ben consapevoli che una Chiesa che voglia sempre più essere capace di camminare in maniera sinodale per uscire, inoltrarsi lungo le strade del mondo, farsi più vicina agli uomini e alle donne di oggi, ai loro bisogni e alle loro attese di bene, alle loro fatiche e delusioni, deve innanzitutto disporsi ad un autentico esercizio di discernimento comunitario: ci è chiesto di non rimanere ostaggi di ciò che “è sempre stato fatto così”, avendo l’umiltà e il coraggio di metterci in discussione per chiederci realmente di cosa ha bisogno il nostro tempo e come possiamo essere all’altezza delle risposte che esso attende. Camminando insieme, facendo della pluralità di sensibilità ed esperienze una ricchezza e non un ostacolo».
A Firenze vescovi e laici, consacrati e sposati, sedevano attorno allo stesso tavolo. Non sempre e non dappertutto è così. Il laicato italiano esce da una lunga stagione di "guida sicura" da parte dei suoi pastori. Una guida che non ha esitato a dettare anche strategie politiche. Francesco spinge per una visione decisamente più pastorale. Come permettere questa transizione? E quanto è pronto il laicato italiano ad assumersi le sue responsabilità?
«Quando papa Francesco parla di vescovi-pastori che devono prendere il posto di vescovi-piloti lo fa sempre pensando al coinvolgimento responsabilizzante di un laicato consapevole, maturo. Questo comporta innanzitutto la necessità che i laici chiamati ad assumersi responsabilità siano laici formati, cresciuti attraverso percorsi di maturazione umana, spirituale, culturale, relazionale adeguati. Perché laici maturi e responsabili non spuntano dal nulla, hanno bisogno di una pianta su cui crescere e nella quale rimanere radicati. C’è bisogno perciò che crescano e si rafforzino le esperienze ecclesiali di condivisione autentica della responsabilità, di confronto libero e coraggioso, di fraternità: è ciò che anche una realtà come l’Azione cattolica, e come essa tante altre, cerca di essere».
Uno dei lasciti del convegno, e, ancor prima, dell’ultimo Sinodo dei vescovi, è la sinodalità come metodo e la comunione come stile. Ne fate esperienza all’interno della Consulta nazionale delle aggregazioni laicali? Ci sono esperienze concrete, iniziative, progetti che testimoniano un nuovo modo di lavorare insieme, al di là delle diverse sensibilità di ogni aggregazione?
«La Consulta rappresenta sicuramente una straordinaria esperienza di comunione e condivisione tra esperienze e sensibilità diverse presenti nella Chiesa italiana. Perciò è un luogo di grande arricchimento reciproco. In questi anni, ad esempio, ho vissuto molti bei momenti di incontro e di partecipazione a significativi appuntamenti delle varie realtà che fanno parte delle Consulta. Ma ancor più che dal punto di vista “istituzionale”, la comunione è cresciuta attraverso alle relazioni personali autentiche che si sono intrecciate grazie alla comune appartenenza alla Consulta. Questo ha reso possibile il maturare di uno stile di confronto franco e davvero arricchente, che mi sembra stia dando frutti importanti, anche se forse poco visibili, dal punto di vista della collaborazione tra le diverse aggregazioni laicali. Credo che lo si possa dire tranquillamente: stiamo vivendo una stagione particolarmente bella per la nostra Chiesa sotto questo profilo. Spero e sono convinto che sia così anche a livello territoriale, nelle consulte diocesane».
Come dare continuità al convegno di Firenze? Si possono individuare tappe, strumenti, organi di partecipazione che diano continuità e attuazione ad un processo vitale per la Chiesa italiana?
«Penso che questa sia la vera sfida che abbiamo davanti a noi. Non so se sarei in grado di indicare una via o uno strumento preciso per poterla assumere in maniera adeguata. Ma non vorrei nemmeno farlo: penso che qualunque via, qualunque strumento, qualunque organo, debba scaturire da un autentico lavoro comune di lettura della realtà del nostro tempo, e da una comune capacità di scommettere sul futuro, di osare, di essere creativi, senza voler mantenere a tutti i costi l’esistente e tantomeno senza limitarci semplicemente a riproporre organi e modalità del passato: è il rischio che molti corrono, anche con le migliori intenzioni, pensando magari alla propria giovinezza. Ma per tempi nuovi occorrono probabilmente strumenti, modalità, forme nuove».
Fra le raccomandazioni del papa, nel suo discorso a Santa Maria del Fiore, ricordiamo la «capacità di dialogo e di incontro», come invito a «costruire insieme, non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà». Francesco esortava a non aver paura di «compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti – diceva – non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre più autentiche certezze». Parole di attualità?
«Parole di assoluta attualità. Il nostro tempo, il nostro Paese, la nostra società hanno un disperato bisogno di dialogo. Hanno bisogno di uomini e donne di buona volontà che compiano ogni sforzo per cercare terreni comuni su cui ci si possa incontrare e costruire insieme, invece che sfidarsi in battaglie ideologiche tra diverse visioni del mondo, dell’uomo, della società, della religione. Troppo spesso prevalgono invece logiche divisive, di parte, che portano a esasperare la contrapposizione tra i territori, tra le culture, tra le generazioni, tra i popoli. Abbiamo bisogno di persone che piuttosto che scavare nuovi fossati si impegnino a gettare ponti levatoi sopra quelli esistenti».
Quali ritiene siano le urgenze del Paese oggi a cui come cristiani e prima ancora come cittadini siamo chiamati a rispondere?
«Sono sicuramente tante, e fare un elenco non può che risultare semplicistico. Ma certamente non si può non ricordare, per prime, alcune vere e proprie priorità, che interpellano la nostra coscienza e rispetto alle quali non possiamo non sentirci fortemente interpellati: la promozione di una cultura della legalità, che rifiuti ogni forma di corruzione e si batta contro la piccola e grande criminalità, la messa in pratica di una coraggiosa strategia di accoglienza degli immigrati e, ancora, un impegno serio per la custodia dell’ambiente, del territorio. Alla politica, poi, credo sia giusto chiedere un’azione più incisiva a favore del mondo del lavoro e investimenti significativi, non solo economici, per scuola, università e ricerca. È in questi ambiti che si gioca gran parte del futuro delle famiglie e delle nuove generazioni».