I cattolici e la politica: tra intransigenza e partecipazione
L’obiettivo di questo contributo è di proporre una sintetica riflessione sul lungo e accidentato percorso dei cattolici impegnati nello spazio politico italiano e contemporaneamente del più ampio rapporto tra dimensione politica e dimensione religiosa, cosi come si è dipanato all’interno dell’evoluzione politico-istituzionale dell’Italia unitaria.
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Ripercorrere questa storia può forse aiutare a riflettere nell’ottica di costruire quella complicata “autobiografia nazionale” a oggi assente, ma imprescindibile se davvero si desidera completare la transizione che da troppi anni si trascina inattuata.
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Un grande interrogativo attraversò il composito mondo cattolico al momento dell’unificazione nazionale italiana del 1861: come rapportarsi con la novità costituita dal Regno d’Italia? Con il famoso discorso di Camillo Benso conte di Cavour del 27 marzo 1861, in definitiva, l’autorità civile aveva proposto una possibile modalità. Quella del principale protagonista della riunificazione nazionale in fondo, nella formula del «libera Chiesa in libero Stato», era un progetto a minima. Da un lato si parlava di una piena separazione tra Chiesa e Stato e dall’altro si inseriva l’idea di un libero esercizio delle proprie funzioni all’interno delle proprie sfere privilegiate ed esclusive.
Il netto intransigentismo opposto da Pio IX in realtà celava sfumature di notevole differenza anche rispetto al recente passato. Il pontefice chiarì nel 1864, con l’enciclica Quanta Cura (e l’allegato Sillabo), come fosse giunto il momento di tornare a schierarsi in maniera compatta a difesa della Chiesa di Roma (in quanto società perfetta), soprattutto perché l’Ottocento secolarizzato presentava in maniera sempre più evidente quote crescenti di popolazione fuori dal suo controllo. Vi è un evidente paradosso in questa logica di intransigente chiusura.
In realtà, anche se implicita, troviamo una chiara ammissione di debolezza da parte della Chiesa, che in fondo accettava di definirsi società e dunque inserita nella più ampia società nazionale. Se gli eventi del settembre 1870 e il successivo non expedit di Pio IX giungevano a confermare l’idea della chiusura e la sindrome da cittadella assediata, in realtà il laicato cattolico, al quale era imposto il divieto di partecipazione elettorale, cominciava una prima timida fase di organizzazione (sempre sotto controllo vaticano) dei primi congressi, che ben presto condussero alla nascita, nel 1875, dell’Opera dei Congressi.
Da un punto di vista istituzionale, la scomparsa di Pio IX e l’ascesa al soglio pontificio di Leone XIII non comportarono particolari cesure. Anzi il nuovo pontefice mostrò molta attenzione nel mantenere separato il piano della politica italiana da quello del rapporto, tutto da edificare, tra Chiesa e modernità.
Rispetto a questo secondo punto, con la sua enciclica De Rerum Novarum (1891), Leone XIII soffermava la sua attenzione e richiamava quella dei credenti sulla nuova grande questione in atto: quella operaia. Per condurre in porto lo scontro arrivava a rivolgersi direttamente anche al mondo imprenditoriale in funzione antisocialista.
Operazione che portò frutti in contesti europei, come in quello tedesco, ma non in quello italiano. Fu proprio, però, ancora una volta questo rifiuto dell’istituzionale che spinse il pontefice a incentivare tutto ciò che non era solo e meramente politico. Il clero fu sollecitato affinché uscisse dalle “sacrestie” e le organizzazioni del laicato cattolico (in particolare l’Opera dei Congressi) a loro volta spinte a tramutarsi da guardiane del tempio ferito in strumenti di azione sul terreno sociale con il doppio obiettivo di frenare la diffusione del socialismo e di tornare a determinare un ruolo sociale per la Chiesa.
Complice anche il fermento all’interno dell’Opera dei Congressi, il passaggio del secolo sembrava offrire spazi di movimento fino a quel momento inediti per nuove forme di protagonismo dei cattolici.
Addirittura a partire dal 1902, Romolo Murri cominciò ad avanzare l’ipotesi che si potesse dispiegare una qualche forma di “democrazia cristiana”.
L’avvio del nuovo pontificato di Pio X impose però una netta cesura, non tanto e non solo nei termini della presenza, quanto piuttosto relativamente ai margini di autonomia del laicato rispetto alle gerarchie (vescovi e pontefice).
La seconda parte del primo decennio del secolo si presentò così come portatrice di alcune importanti svolte, che segnarono il rapporto tra religione, società e politica, perlomeno per il trentennio successivo.
Innanzitutto il pontefice decise di sciogliere l’Opera dei Congressi e contestualmente di puntare a un netto ritorno al religioso, da dispiegare nell’ambito sociale e sotto lo stretto controllo della gerarchia.
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In secondo luogo Pio X rigettava sia l’ipotesi di una qualche forma di partito cattolico, sia quella di penetrazione della modernità all’interno della Chiesa. La riconquista della società non poteva, nella sua ottica, passare attraverso l’opzione partitica, né tanto meno doveva condurre a pericolosi rischi di contaminazione o addirittura assimilazione da parte della stessa modernità. Con l’enciclica Pieni l’animo del 1906 giunsero le sospensioni per i sacerdoti legati alla Lega Democratica (di Sturzo e Murri nata l’anno prima) e con la successiva Pascendi Dominici Gregis le denunce contro ogni forma di modernizzazione tra il clero e la Chiesa in genere. L’accentramento gestionale, unito a una logica compiutamente elitaria e alla convinzione di non lasciare alcuno spazio di autonomia per il laicato furono senza dubbio i tratti più salienti di questa fase dominata da Pio X.
Egli, sempre seguendo questo approccio, condusse in porto anche un progressivo allontanamento dal non expedit, ancora una volta da portare a termine non attraverso una qualche forma di delega politica che potesse condurre alla nascita di un, seppur embrionale, partito cattolico, ma attraverso una sorta di accordo tacito in base al quale veicolare il voto cattolico per candidati governativi avrebbe fatto ottenere un’azione legislativa non ostile alla Chiesa da parte della classe dirigente liberale al potere.
Il Patto Gentiloni del 1913, in quest’ottica, si tramutava nel definitivo scioglimento del “diktat” del non expedit, ancora una volta gestito in maniera elitaria e accentrata.
Da Paolo Pombeni in dialogo con Michele Marchi, LA POLITICA DEI CATTOLICI, dal Risorgimento ad oggi (Città Nuova, 2015)