I cantieri dopo l’abominio

Il Mediterraneo stupisce più d’ogni altro mare: è sempre lo stesso, ma in ogni luogo appare come una novità riservata dal buon Dio-Allah-Yahvé per fare gli uomini un po’ migliori.Anche qui in Algeria, i settanta chilometri che separano la capitale dal sito archeologico di Tipaza provocano un continuo transitare dal noto allo sconosciuto. Le baie si succedono uguali e inattese, la vegetazione s’ammanta d’ogni verde, il cielo si distingue e si fonde con le acque. Tipaza accoglie il visitatore modestamente, col suo porticciolo da bambole, le sue barchette che dondolano sulle increspature delle acque, le famiglie che se la godono a farsi baciare dal sole e dal vento su scogli e faraglioni. I romani avevano scelto bene il sito… Eppure proprio qui fu scoperta una fossa comune di un centinaio di corpi durante la fase terrorista, e qui accanto, alle pendici del monte Cherchel, si riunirono nel 1945 i leader alleati, poco prima di quell’8 maggio che qui viene ricordato come una offesa colonialista: 20 o 45 mila morti ammazzati dalle truppe francesi. Come hanno fatto gli algerini a rinascere in pochi anni da una guerra da 100 mila morti, quando ancora non si era spenta l’eco delle carneficine della guerra di liberazione? Ecco la domanda a cui vorrei trovare risposta. Normalizzazione Di tutto ciò parlo col giornalista che mi accompagna, un uomo toccato nei suoi affetti e nella sua professione dalla guerra del Fis, il Fronte islamico di salvezza. Lo chiamerò Rachid. Il viaggio si annuncia come una rivisitazione della lunga notte che l’Algeria ha vissuto tra 1992 e 1998. Così l’amico mi indica un ristorante italiano in cui, negli anni difficili, servivano il vino nelle bottiglie di Coca-cola, per evitare le ire dei fondamentalisti. Così passiamo dinanzi al portone dove un suo amico fu freddato, alla presenza della moglie, uno tra i 60 giornalisti uccisi in quegli anni, il 10 per cento degli iscritti all’ordine. Così ci imbattiamo nei cantieri della metropolitana, i cui lavori sono cominciati 25 anni fa, ma che non sono ancora terminati per l’interruzione di otto-dieci anni dovuta alla crescita del terrorismo. Così passiamo dinanzi alla Fondazione dei diritti dell’uomo, dove ogni mercoledì le madri dei 12 mila scomparsi della guerra civile chiedono ancora notizie dei loro cari… Ci imbattiamo in decine e decine di strani posti di blocco, dei gendarmi in verde o dei poliziotti in blu, ma non veniamo mai fermati, perché la funzione di tali presidi non è tanto quella di reprimere le infrazioni, quanto di rassicurare la gente e di dissuadere chiunque dall’infrangere la legge. Sono il simbolo dell’attuale regime, che deve ancora passare molti esami sulla sua reale democraticità, ma che ha fatto muovere le cose e sta prosciugando l’acqua torbida dove pescavano i fondamentalisti. Innanzitutto l’acqua della mancanza di libertà: oggi la stampa appare assai libera, i quotidiani sono farciti di denunce e di critiche a membri del governo, fino al presidente. C’è poi la palude della povertà: tra i cinque grandi cantieri promossi dal presidente Bouteflika, spicca quello del milione di alloggi e dei due milioni di nuovi posti di lavoro promessi. Non manca lo stagno della giustizia che spesso non giudica perché corrotta, giustizia che a fatica sta ritornando a galla, con uno sforzo gigantesco di ascolto del popolo. E non si può dimenticare il pozzo senza fondo dell’ignoranza, sulla quale gli imam fondamentalisti inculcavano credenze di superstizione e di vendetta: in Algeria non ci sono scuole coraniche riconosciute, e l’educazione nazionale sta cercando di riprendere fiato. E infine le sabbie mobili di un esercito onnipresente ancora non amato dal popolo ma rispettato come sola istituzione credibile del paese, soprattutto dopo l’intervento che nel 1992 ha portato all’annullamento delle elezioni che il Fis stava vincendo, ma allo scopo di abolire la democrazia… Mi sembra di cogliere nelle parole di Rachid, voce del pensiero di milioni di algerini, un nuovo gusto per la legalità, il desiderio di riscoprire il valore dello stato e della pubblica amministrazione. Per far sì che questo sogno diventi realtà, superando le pesanti corruzioni e le irrazionalità incombenti, gli algerini guardano in massima parte all’Europa, alla odiata- amata Francia e anche alla sempre più vicina Italia: da quest’anno l’italiano è la terza lingua insegnata nelle scuole, assieme a tedesco e spagnolo. Memoria e attualità Tahar Absi insegna pedagogia all’Università di Algeri. Mi aiuta a capire il cambiamento: L’evoluzione politica dell’Algeria dall’indipendenza del 1962 in poi – mi spiega – è stata turbinosa. Dal socialismo siamo passati ad una cultura arabo-islamica con l’isolamento della cultura berbera e l’emergenza improvvisa di una forte tendenza alla creazione di una repubblica islamica, peraltro completamente avulsa dalla mentalità algerina. Di fronte al pericolo, abbiamo assistito al risveglio del nostro popolo, che pur in un primo momento aveva subito l’abbaglio di una cultura di rivincita e di trionfo islamico: una bolla di sapone. È successo che, di fronte ad una grave crisi pedagogica, si sono infiltrate nel sistema educativo delle tendenze al fanatismo religioso. Lo stato ha avuto le sue colpe, sia per non aver vigilato su queste infiltrazioni, sia per avere pensato di usarle per conquistare la fiducia delle masse, mentre l’apparato statale sprofondava in una progressiva e inarrestabile corruzione. Il prof. Absi ricorda un collega, Abbasi Madani, uno dei capi del Fis, col quale all’epoca discuteva animatamente, perché riteneva che il principio dell’ascolto dell’altro non potesse essere cancellato dal progetto educativo algerino. Non si poteva più parlare di cultura occidentale – prosegue Absi -, che veniva caricaturata come opposta alla cultura islamica. Si accettava la tecnologia d’origine occidentale, ma non la filosofia e la teologia che ne erano alla base. Oggi posso dire che avevo ragione nell’oppormi a Madani, perché non è possibile cancellare una cultura con un colpo di spugna… E questa cultura islamica non è riuscita a penetrare nel popolo in profondità, sprofondando poi nella barbarie. Penso che ora si possa affermare che i partiti fondamentalisti islamici non siano spariti, ma che abbiano un’influenza sulla società in discesa rapida. In questa direzione l’apertura del governo per una riconciliazione nazionale penso che toglierà forze al movimento islamista. Velo, non velo… Leila Aslaoui, già magistrato, già ministro, ora parlamentare, non nasconde una grave pecca di tale progetto: Non ci può essere riconciliazione nazionale – mi dice con forza – se non c’è ammissione di colpa, se non si mantiene viva la memoria dell’abominio . Non dice queste parole senza cognizione di causa: la guerra le ha portato via il marito dentista, accoltellato nel suo ambulatorio da tre falsi clienti. Ha uno spirito indomito, Leila Aslaoui, una calma lucidità che la fa parlare con un coraggio fuori dal comune: Mi ritrovo assai perplessa a proposito di tante incongruenze dell’Islam praticato in Algeria – prosegue -; emblematica, a questo proposito, è la situazione della donna. Ho appena terminato di scrivere una serie di racconti proprio sulle donne algerine. Uno di questi narra di quelle che hanno messo il velo dopo il terremoto del 2003, perché certi imam avevano fatto loro credere che quella catastrofe naturale era stata una punizione divina per l’abbigliamento sconcio usato da tante donne algerine! Contro i frutti dell’ignoranza io debbo reagire. E come donna musulmana non posso accettare questi sfruttamenti della donna, queste ineguaglianze con gli uomini. Di fatto, ad Algeri la popolazione femminile si divide in due nell’uso del velo islamico. Ne parlo con Farida, 39 anni e nubile, laureata in scienze dell’educazione, che porta il velo ed è ricoperta d’una lunga tunica scura che nasconde ogni possibile esposizione epidermica, e con Rosa, sposata con due figli, medico all’ospedale di Algeri, che non porta il velo, ma lunghi capelli castani sciolti sulle spalle. Che cosa unisce le due donne? Una profonda amicizia e il reciproco rispetto: uno spaccato della società algerina, divisa in due parti che sembrano non avere nulla in comune, ma che pure convivono, si tollerano e in fondo si rispettano profondamente. Farida: Da dieci anni, da quando mia madre è morta, mi sono volta verso la religione, prendendo come suo primo vessillo proprio questo velo. Ho scoperto una religione che valorizza non solo l’uomo, ma anche la donna. È l’Islam che ha dato i diritti fondamentali alle donne, alla educazione e all’eredità, al divorzio, nei limiti della shari’a. Il velo è il segno che la donna ha il possesso di sé. Rosa reagisce, sostenendo che in questo modo si introduce nella vita sociale un elemento di rottura, di mancanza di libertà, di dominio degli uomini sulle donne. Al che Farida reagisce a sua volta, sostenendo che è esattamente il contrario: con le mani mobilissime e lo sguardo vivace afferma che bisogna professare anche esteriormente la propria fede, senza paura. E comincia a perorare la causa dell’Islam: Con tutte le mie forze desidero che tu diventi musulmano, perché questa è la volontà di Dio, che tutti lo diventino. Ma senza indebite pressioni, perché la religione non usa mai violenza nei confronti di una religione diversa dalla propria. Precisa Rosa: L’ignoranza va combattuta, perché nella menzogna non ci può essere dialogo, ma solo scontro. A mia figlia la maestra disse di tingersi i capelli che erano troppo scuri, perché il nero è il colore degli ebrei. Da quel giorno l’hanno chiamata la piccola ebrea. Volevo portare il caso fino al ministro, ma mia figlia mi ha dissuasa, dicendomi: A me piace essere chiamata piccola ebrea. L’ignoranza fa solo danni. Il santuario comune La cattedrale cattolica di Algeri, situata nella celebre rue Didouche- Mourad che scende al mare in uno scintillìo di biancore arabescato di azzurro, esteriormente potrebbe essere scambiata per la ciminiera d’una centrale elettrica, tanto più che dinanzi ad essa un governo poco amico ha autorizzato la creazione di una stazione di servizio. Ma l’interno ha qualcosa di fantastico: è la tenda nel deserto, secondo la descrizione del Vangelo di Giovanni. Questa cattedrale è un po’ il simbolo della Chiesa algerina, chiesa di martiri e predicatori, pensatori e mistici, testimoni e servitori. Un chiesa come tenda nel deserto del cristianesimo: sono poche migliaia i fedeli, in tutto, ma la loro presenza è profetica, apprezzata quasi universalmente, anche per il coraggio manifestato nei giorni bui del terrorismo. Mons. Claverie e gli altri martiri del fondamentalismo, col loro sangue hanno legato indissolubilmente la Chiesa cattolica locale al paese. D’altronde i musulmani hanno già un particolare legame coi cristiani: Maria. La basilica di Notre-Dame d’Afrique ne è il più chiaro simbolo. Sta perché Maria-Mariam è il tratto comune delle due fedi qui professate, amata dai musulmani come dai cristiani. Non a caso il coro è ornato da una scritta che incanta e stupisce: Notre-Dame d’Afrique, prie pour nous e pour les musulmans, Nostra Signora dell’Africa, prega per noi e per i musulmani. Dialogo e ignoranza Una chiesa dialogante, insomma, è quella algerina. Una chiesa che nella Maison diocésaine, luogo di raccolta delle sue tante iniziative, vede la continua presenza di amici musulmani, per convegni, per semplici visite, perché si sta bene insieme. È qui che abita mons. Henri Teissier, colui che mai è fuggito dal paese, e che per questo ormai è più algerino degli algerini, non solo per nazionalità. Lo incontro nella sua modesta abitazione, appena tornato dall’ufficio guidando la sua piccola utilitaria. Un uomo di Dio, questa la prima e indifferibile impressione. Con lui parliamo a lungo dell’Algeria e del dialogo coi musulmani. Il suo amore per i concittadini non ha limiti. Incontro ogni giorno tanti di loro – mi confida -, ma non i fondamentalisti, perché non vogliono proprio incontrarci. Tuttavia è crescente il numero di coloro che manifestano il desiderio di cercare di scoprire chi siamo, di coloro che vogliono trovare una religione che libera l’uomo e la donna, ma senza rinunciare alla loro identità. Se oggi non ho più tempo per me, non è perché sono schiacciato da chi vuole sopprimerci, ma dalla quantità di inviti che mi rivolgono i miei amici. La sua visione è chiara, e spazia ben al di là dell’Algeria: Non so chi vincerà nell’attuale lotta interna al mondo musulmano tra chi vuole chiudere le società arabo-musulmane su sé stesse e di chi invece desidera aprirle al mondo, come d’altronde non so se in occidente vincerà la tendenza di chi vuole una modernità aperta all’altro o di chi al contrario vuole imporre i propri comportamenti e le proprie norme a tutti quanti. Bisogna quindi tenere gli occhi ben aperti, perché sono persuaso che nel mondo musulmano ci siano persone che organizzano l’inimicizia tra cristiani e musulmani e anche tra popoli diversi, e che vogliono imprigionare la gente all’interno di certezze preconfezionate, che negano l’altro. Ma l’esclusione è organizzata anche nel mondo occidentale. Non si arrende, mons. Teissier: È una lotta; e sono felice di poter prendere posto in questa battaglia di civiltà, sui due fronti. Non so chi vincerà e non è importante saperlo. So solo che è un compito evangelico quello di cercare la relazione e di aumentare la condivisione, di liberarsi dei pregiudizi del passato. La Chiesa d’Algeria è unanime nell’aver capito che dobbiamo essere la Chiesa di Cristo per l’intero popolo. Non è solo, mons. Teissier in questa lotta per il dialogo. Non sono soli i cristiani. Nel mondo musulmano, infatti, tante e sempre più numerose sono le voci che vogliono ripristinare un dialogo naturale, come da sempre è avvenuto in Algeria, se si escludono i periodi coloniali, come mi dice un personaggio quale Rachid Boumaza, uno dei padri della patria libera, che ha pagato di persona con una quindicina d’anni di prigionia e d’esilio in Francia e in Svizzera, prima di tornare in patria assieme a Ben Bella. È stato a lungo presidente del Senato: Siamo condannati a dialogare, perché non possiamo vivere gli uni senza gli altri. L’Algeria senza cristiani non sarebbe più l’Algeria. Come agire? Con la politica, con la legge, con l’ascolto, con la principale caratteristica degli algerini, cioè l’accoglienza e l’ospitalità. Se tradiamo queste nostre peculiarità, scompariremo.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons