I Cantici di Montfort
Quando a scuola mi parlavano del Re Sole e di altri famosi del Settecento, fino ai rivoluzionari e a Napoleone, il secolo mi pareva riempirsi di loro. Poi non ho fatto altro che sgonfiarli, nel tempo, come pupazzetti ad aria compressa, fino a ridurli alla giusta dimensione di poveruomini più o meno illusi. E correlativamente mi crescevano i veri grandi: scrittori, scienziati, e santi; i quali ultimi sono sempre grandi, ma se risultano anche uomini eccezionali si presentano come giganti del loro tempo (e per il nostro). Ciò nel Settecento accade almeno a tre di essi, Alfonso de Liguori (il grande moralista), Paolo Danei (Paolo della Croce, fondatore dei Passionisti), e, ad attraversare a grandi falcate l’inizio del secolo, morendo a 43 anni nel 1716, Luigi Grignion de Montfort. Che quest’ultimo non sia ancora stato dichiarato dottore della chiesa, mi pare un ritardo da superare. Il personaggio, sì, è rude (ma intelligente e colto), smisurato nell’ardore e nei gesti, da buon normand, tanto che un testimone assicura che sarebbe divenuto “l’uomo più terribile del suo secolo” se non fosse stato quel cristiano consumato d’amore; ma, bisogna pur dirlo, chi ha scritto il Trattato della vera devozione alla Beata Vergine Maria, L’amore dell’eterna Sapienza e la Lettera agli amici della Croce, oltre che gli stupendi Cantici qui recensiti, può essere dottore almeno tre volte. Il secolo, nel suo immobilismo politico pre-rivoluzionario, camminava però a grandi passi nella cultura e nel costume, come si vede nell’enorme progresso scientifico e storiografico, nel versante migliore dell’illuminismo, e negli incipienti risvegli nazionali. A passi più lunghi ancora camminava però questo marciatore infaticabile e costruttore di “calvari” (che non piacevano al Re Sole) nelle contrade francesi, perché aveva il passo d’anima del vangelo e di “Dio solo” (motto col sapore di Teresa d’Avila e di Bérulle, indietro, e ispiratore, avanti, certamente, del Curato d’Ars). Di fronte a ciprie e parrucche, prosopopee mondane ed elitarie pretese super-spirituali (giansenistiche), Montfort dice/canta: “Ho scelto: me ne vado per il mondo./ Son divenuto un vagabondo/ per annunciare ai poveri il Vangelo”. E naturalmente li ha quasi tutti (tranne i cristiani veri) contro, laici ed ecclesiastici, a rincarargli la dose delle sue già superlative penitenze. Ma lui ha il passo degli innamorati e della Sposa del Cantico biblico, che risponde all’invito “Alzati, amica mia, mia bella, e vieni”. E perciò canta, come un angelo ma anche come un Grillo Parlante: “Il mondo reprobo disdegna/ il canto mio. Che importa?/ Se credere non vuole,/ io canterò su lui vittoria”; perché sa che “di santità segreto vero è il canto”. Alla fine di ogni cantico la “firma” Dio solo, in maiuscole. Montfort attacca i cantori ufficiali, i poeti alla moda: “Se fossero davvero grandi i vostri versi/ sarebbero compresi dai bambini “, e difende i propri anche se modesti: “Ecco i miei versi, i canti miei./ Non sono, forse, belli, ma son buoni./ Se non lusingano l’orecchio, mettono in rima grandi meraviglie”. Con questa candida e astuta sapienza evangelica il poeta-camminatore-missionario versa in orecchie rudi e aperte dolcezze di parole che contengono nutrimenti sani e sostanziosi; basta questa quartina sulla carità: “Son difficile a capirsi/ sono tutta eternità,/ nel suo cuor mi crea il Signore,/ ho su lui autorità”. Ecco il passo, l’eco, il profumo del santo. Oggi abbiamo, nel secondo bel volume delle Opere (con apparati critici), i Cantici sia in italiano che nel testo originale, con una introduzione un po’ restrittiva di B. Papàsogli (Montfort non è Giovanni della Croce, solo perché è un altro tipo di poeta). Le traduzioni sono “di servizio”, cioè di semplice supporto al gusto diretto degli splendidi originali (ma con qualche imperfezione di ritmo evitabile). Il prezzo, data la mole, è ottimo. L’occasione, culturalespirituale, unica.