I caccia bombardieri F35 e la difesa nazionale
Da lunedì 24 giugno, secondo il calendario della Camera dei Deputati, inizia la discussione della mozione, sostenuta dalla campagna “taglia le ali alle armi”, che chiede la cancellazione della partecipazione italiana al programma dei cacciabombardieri F-35 Joint Strike Fighter. Primo firmatario, il deputato indipendente di Sel, Giulio Marcon, esponente del mondo “pacifista” e autore, tra l’altro, di un testo significativo sulla forza delle reti sociali:«Come far politica senza entrare in un partito».
La mozione ha superato le 160 firme di deputati provenienti da Pd, Sel, Scelta civica e M5S. Un primo segnale di rinnovato interesse sulla spesa per gli armamenti si è avuto durante la campagna elettorale e già alle primarie del Pd, quando Bersani, in discontinuità con la linea consolidata della sua coalizione, ha affermato che, in caso di vittoria, avrebbe parlato con Obama per rivedere i termini dell’accordo con la statunitense Lockheed Martin, capofila del progetto internazionale che prevede la realizzazione di 3.173 esemplari di aerei da attacco di ultima generazione. L’intera operazione, che vede l’Italia partner di secondo livello, è stata dall’inizio considerata, da governi di diverso colore e ribadita dall’attuale ministro Massimo Mauro, come una occasione irripetibile per consolidare la nostra industria bellica nella filiera della migliore tecnologia aeronautica e aumentare, così, il livello occupazionale del settore fino a prevedere, secondo le numerose dichiarazioni dei vertici militari e civili, la creazione di 10 mila posti di lavoro, scesi, man mano, al numero necessario a garantire il lavoro degli attuali addetti dell’industria della difesa messa a dura prova dagli scandali che hanno coinvolto Finmeccanica.
La strategia che sostiene la spesa
Dubbi sul successo dell’operazione sono emersi all’interno dello stesso comparto industriale militare da parte di coloro che preferirebbero seguire un processo di integrazione tra produttori europei visto che uno dei grandi temi continentali riguarda la creazione di una forza difesa comune, meno costosa e più efficiente di quella attuale, ancorata alle forze armate nazionali. Di fatto Germania e Francia, per fare un esempio, continueranno a puntare sui loro aerei da combattimento, rispettivamente Typhoon e Rafale, mentre l’Italia ospiterà a Cameri, in provincia di Novara, un modernissimo centro per l’assemblaggio finale e la manutenzione degli F35 rivolto agli altri soci e clienti del progetto statunitense come, altro esempio, Turchia e Israele.
Per l’allestimento del Faco (Final assembly & check out) che si estenderà su un area di mezzo milione di metri quadrati dell’aeroporto piemontese, il ministero della Difesa ha già speso 800 milioni di euro che rientrano, tra studi di fattibilità e primi acquisti, nei complessivi tre miliardi di euro già usciti dalle casse dello Stato come anticipo dei complessivi 14 stimati con riferimento ai 90 aerei da acquistare, dopo il taglio del governo Monti sui 131 iniziali, per sostituire la dotazione attuale di Aeronautica e Marina.
Realisticamente, come già avvenuto in passato, il costo finale non può essere preventivato con esattezza e la gran parte delle uscite pluriennali riguarderanno gli oneri di mantenimento di velivoli di altissima complessità tecnologica, progettati per trasportare anche ordigni nucleari. L’investimento è giustificato come indispensabile per il nostro Paese, che partecipa ad operazioni militari su fronti di guerra, dall’Iraq alla Libia, ed ha quindi accettato, ai suoi vertici, un concetto di difesa non limitato ai confini nazionali, ma tale da estendersi su tutti i fronti planetari sui quali sarà chiamato a misurarsi per rimanere fedele alle proprie consolidate alleanze internazionali.
Come afferma Michele Nones, direttore dell’area sicurezza dell’autorevole Istituto affari internazionali, grande sostenitore del progetto Jsf35, «i velivoli per l’attacco al suolo servono per colpire obiettivi terrestri o navali fissi o in movimento. Fra il resto, sono serviti all’Italia per colpire obiettivi militari durante gli interventi in Kuwait, Kosovo, Iraq, Afghanistan e Libia a protezione della popolazione civile, delle loro nuove forze di sicurezza e dei nostri uomini. Potrebbero un domani servire per proteggere anche la nostra comunità». Secondo Nones, l’F35 è «l’unico velivolo di nuova generazione che sarà disponibile nei prossimi anni. In particolare, sarà il solo ad avere una versione imbarcabile sulle nostre portaerei» che sono parte di una flotta che «dovrà essere in grado di reggere il confronto con la nuova generazione di caccia invisibili russi (T-50) e cinesi (J-20) che a breve invaderanno il mercato dell’export e saranno disponibili per molti paesi critici».
È chiaro che di fronte a tali argomentazioni sembra fuori luogo ogni ragionamento sui costi di un aereo che sottrae soldi ad una comunità nazionale che ha interi pezzi di territorio minacciati dal dissesto idrogeologico nonché scuole e ospedali inagibili.
Conflitti di coscienza e il ruolo del Parlamento
Alla radice della questione F35 c’è la scelta del modello di difesa e il ruolo dell’Italia nel quadro delle alleanze internazionali. Giunti a questo snodo centrale, storicamente, anche i pochi parlamentari cattolici provenienti da associazioni e movimenti favorevoli ad una politica di pace hanno optato per un poco visibile dissenso personale di fronte al realismo imposto dalle ragioni del partito. Nell’ultima legislatura Savino Pezzotta, deputato centrista “moderato” al quale non piace il termine “pacifista”, preferendo quello di “pacifico”, ha invece presentato una mozione, passata a maggioranza, in cui si richiedeva, in obbedienza alla Costituzione, di riportare la questione «sui sistemi d’arma che riguardano la difesa nazionale» all’interno del dibattito parlamentare, senza liquidare il tutto come questione tecnico amministrativa. Un risultato importante in netto dissenso con la linea dell’ammiraglio Di Paola, ministro della difesa del governo tecnico di Mario Monti.
Oggi Pezzotta, presidente del Consiglio italiano dei rifugiati, non è rientrato nelle liste compilate per le ultime elezioni, ma è tra i primi firmatari dell’appello, promosso da Rete disarmo, Sbilanciamoci e Tavola della pace, a sostegno del no al programma F35. Segnale di un dibattito vero e ragionato che ha bisogno di trovare spazio non solo in Parlamento.