I brevetti sui farmaci non tutelano dalle contraffazioni

Nicoletta Dentico, presidente dell'Osservatorio italiano sulla salute globale, commenta la sentenza della Corte indiana sul farmaco antitumorale della Novartis. «Il brevetto è un diritto privato e individuale che non può contrapporsi ad un diritto fondamentale e collettivo, come quello alla salute»  
India medicinali anticancro

«È stata scritta una pagina importante nella storia del diritto alla salute di tutti». Così esordisce Nicoletta Dentico, presidente dell’Osservatorio italiano sulla salute globale, a proposito della sentenza della corte indiana sul farmaco antitumorale prodotto dalla Novartis, a cui non è stato rinnovata la concessione del brevetto.

Davvero questa sentenza ha un rilievo mondiale?
«In tutti questi anni la vicenda dei brevetti sui farmaci è stata limitata ai poveri ed è vero che il problema li riguarda da vicino. Per noi avere un farmaco retrovirale non è un problema, lo sta già diventando in America dove il sistema assicurativo non sempre li include. In Italia però una persona sieropositiva, ad esempio, ha accesso alla copertura di farmaci specifica grazie al Sistema sanitario nazionale. In molti Paesi del Sud del mondo questa copertura non esiste proprio e quindi sull’accessibilità dei farmaci si gioca la partita della vita di persone che si trovano già in uno stato di particolare vulnerabilità».

L’India sta riscrivendo la legislazione sui brevetti?
«Il Paese indiano ha introdotto la sua legge sui brevetti nel 2005 quando è entrato nell’organizzazione mondiale del commercio e quando ha dovuto estenderla al settore farmaceutico ha dato prova di una politica seria di bilanciamento tra protezione dell’innovazione e interesse pubblico. La legge riconosce la proprietà intellettuale, il brevetto e quant’altro, ma riconosce altresì che è opportuno bilanciare questo tipo di diritto, individuale, di natura privatistica e a tempo, con un diritto alla salute, che è un diritto fondamentale, collettivo e perenne».

Cosa comporta esattamente questo tipo di norme?
«La legge indiana è frutto di grandi negoziati. Il suo ingresso nel Wto ha allarmato tanti Paesi perché pensavano che l’adesione a leggi internazionali sul commercio avrebbe messo in discussione il ruolo dell’India come farmacia del mondo. Tante delegazioni africane chiesero che non si perdessero le peculiarità del sistema di produzione dei farmaci perché il brevetto non doveva avere la prima e l’ultima parola su tutto. Le norme varate dal governo di Nuova Delhi prevedono che ci si possa opporre ad un brevetto sia prima che sia stato rilasciato, che dopo. Questo consente che si possa aprire un reale dibattito sul valore assegnato a quel brevetto e quindi che sia veramente un’invenzione nuova, che ci sia innovazione rispetto ad una vecchia concessione e che abbia un’applicazione industriale. Il comma 3d poi stabilisce criteri severi perché una cosa sia brevettabile e cerca di impedire la pratica diffusa del rinverdimento dei brevetti».

Cioè le aziende non innovano veramente, ma modificano solo qualche dettaglio perché si possa prolungare la concessione?
«Il brevetto è una sorta di monopolio che nessuna azienda vuole di fatto che finisca perché altrimenti si interromperebbe un flusso di denaro notevole. La vera ricerca spesso più che concentrarsi su nuovi farmaci si preoccupa di estendere i brevetti e mantenere una situazione di monopolio sul mercato. L’India ha fatto sì che ciò non avvenisse».

E la proprietà intellettuale in questo ginepraio normativo e commerciale che fine fa?
«Quando la conoscenza prodotta si chiude in un’ottica di proprietà non si favorisce la ricerca, anzi la si soffoca. L’accordo sulla proprietà intellettuale, entrato in vigore nel 1995, si è tradotto in diminuzione dell’innovazione e della ricerca che ha preferito concentrarsi solo su quelle aree terapeutiche che hanno un ritorno dell’investimento. Non si fa mai ricerca su malattie di pazienti non paganti. Se si lavora in open source e i pezzetti di conoscenza che ognuno gestisce privatamente sono condivisi si possono formulare nuovi prodotti, migliorarli, scoprire applicazioni nuove di vecchi prodotti. Nelle nuove start up si sta affermando la cultura di non brevettare perché i brevetti chiudono la conoscenza e quindi in un’ottica di condivisione del sapere non sono ammissibili».

Se non ci sono i brevetti come ci si rifà dei costi di ricerca?
«La ricerca costa molto, ma le aziende hanno un ritorno di miliardi di dollari all’anno per i farmaci e quindi con un anno di vendite le ricerche vengono abbondantemente ripagate. Basterebbero al limite anche cinque anni, invece i brevetti si aggirano sempre sui venti perché in fondo i Paesi industrializzati che tanto parlano di mercato non vogliono la competizione vera con i Brics, che in questi anni sono cresciuti attingendo alla loro conoscenza, ma è un confronto inevitabile».

Come proteggersi dalle contraffazioni?
«Il brevetto è una questione commerciale che non incide sulla qualità del farmaco. Ad esempio il Biox, un antidolorifico ampiamente brevettato ha poi di fatto ucciso tantissime persone per effetti collaterali micidiali. L’idea che i brevetti siano una tutela della salute, non è del tutto vera. La contraffazione ha a che fare con la violazione del marchio, ma sulla cattiva qualità del farmaco ci sono altri tipi di controlli che devono subentrare, perché qui entrano in gioco logiche criminali. Il mercato illegale nasce proprio per l’inaccessibilità ai farmaci di intere popolazioni. Per rispondere alle esigenze di una madre che ha il figlio malato di malaria e che farebbe di tutto per aiutarlo, ecco allora che si immettono farmaci pessimi che non contengono i principi attivi dichiarati. Ogni Paese ha le sue contraffazioni. I farmaci di poca qualità non vengono dall’India o dalla Cina, ma anche dall’Europa che quando produce farmaci per i paesi europei segue certi standard, ma quando li manda in Paesi dove non esistono controlli accurati anche la produzione non è così di qualità. Finché i brevetti alimenteranno un regime di monopolio e non guarderanno alle reali necessità dei pazienti i rischi di infiltrazioni criminali restano alti».

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