I bombardamenti e le vittime civili di Gaza

L’accanimento dell’esercito israeliano contro i capi e i miliziani di Hamas nella Striscia di Gaza avrebbe provocato finora l’uccisione di 38 mila persone, secondo i dati forniti dalle autorità palestinesi, ma quello che non emerge abbastanza è che il 70% delle vittime dei bombardamenti e degli attacchi israeliani sono donne e bambini
Un padre palestinese abbraccia il corpo del figlio morto all'ospedale Nasser dopo un attacco aereo israeliano nella zona di Al-Mawasi di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, il 16 luglio 2024. Foto: EPA/HAITHAM IMAD via Ansa

Nello scorso fine settimana mentre il mondo si preoccupava dell’attentato a Donald Trump, l’esercito israeliano ha bombardato il campo profughi di Al Mawasi, nel sud della Striscia di Gaza. Un terreno largo un chilometro e lungo 14, da Khan Yunis fino a Rafah, indicato dagli israeliani come “zona umanitaria sicura”, e dove secondo Al Jazeera erano ammassati 80 mila sfollati.

Le autorità israeliane dicono che l’attacco aveva lo scopo di colpire due esponenti di Hamas: Rafa’a Salameh, comandante della brigata Khan Yunis, e Mohammed Deif, capo delle Brigate al-Qassam, ritenuti ideatori ed esecutori dell’attacco del 7 ottobre 2023 che provocò la morte di 1200 israeliani e il rapimento di 250 ostaggi. Deif, 58enne nativo di Khan Yunis, è scampato in passato ad almeno 7 tentativi di eliminarlo ed è considerato uno dei più pericolosi nemici di Israele, pur essendo probabilmente paralizzato e privo di un occhio. A quanto pare, anche stavolta è sopravvissuto, diversamente dalle 90 vittime (e 300 feriti) che l’attacco israeliano di sabato scorso ha provocato.

Nei giorni scorsi, poi, gli israeliani hanno bombardato i campi profughi di Al Maghazi e di Nuseirat, alcuni quartieri di Gaza e i dintorni di Khan Yunis e Rafah. Martedì 16 luglio è stata colpita una scuola dell’Onu a Nuseirat (sarebbe la sesta scuola in dieci giorni) e un mercato ad Al Mawasi, con 42 vittime. Ne parla, su internazionale.it, nella newsletter “Mediorientale” del 17 luglio, Francesca Gnetti, autrice anche di un altro articolo, della settimana scorsa, che fa molto riflettere e intitolato “Le parole per descrivere Gaza”.

Fra le parole individuate da Francesca Gnetti per descrivere la situazione di Gaza oggi, spicca in particolare il termine “scolasticidio”. Il termine sarebbe stato coniato nel 2008-2009 da Karma Nabulsi, docente di Scienze politiche a Oxford. «Dopo l’inizio dell’offensiva israeliana nel territorio palestinese il 7 ottobre – scrive Francesca Gnetti –, un gruppo di esperti riunito nell’organizzazione Scholars against the war on Palestine ha ampliato la definizione [di scolasticidio] per includere la distruzione intenzionale del patrimonio culturale – archivi, biblioteche, musei – l’uccisione o la detenzione di educatori, studenti e professori, la chiusura o la demolizione degli edifici scolastici e l’uso delle strutture come basi militari. L’enormità della devastazione di Gaza li ha portati a concludere: “La politica coloniale israeliana a Gaza è ora passata da un focus sulla distruzione sistematica all’annientamento totale dell’istruzione”». E riferisce, in sintesi, che secondo dati forniti dalle Nazioni Unite, almeno il 90% delle scuole di Gaza è ormai distrutto o gravemente danneggiato. Secondo informazioni risalenti ad aprile 2024, inoltre, nella Striscia sarebbero morti 5.479 bambini e ragazzi, 261 maestri e 95 professori universitari. E, secondo The Guardian, lo scolasticidio non risparmierebbe Cisgiordania e Gesrusalemme Est.

Macerie della casa della famiglia Abu Safia distrutta a seguito di un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Al Nusairat, nel centro della Striscia di Gaza, il 16 luglio 2024. Foto: SCIABOLA EPA/MOHAMMED via Ansa

Per la cronaca, le altre parole chiave individuate da Francesca Gnetti per descrivere l’azione israeliana a Gaza sono: culturicidio, ecocidio, urbicidio, domicidio e politicidio. Anche se, come auspicabile, si fermasse la guerra, “la Striscia di Gaza resterà inabitabile per le generazioni future”, e i sopravvissuti non avrebbero ormai nessuna alternativa se non quella di andarsene.

Vorrei concludere con un’affermazione personale: non sono antisemita, non lo sono mai stato, anche perché ritengo che i palestinesi siano molto più semiti della maggioranza degli israeliani. E poi perché penso che gli ebrei non siano tali in quanto semiti, ma in quanto eredi di una storia di elezione divina e della risposta a questa elezione: la risposta di Abramo, Isacco, Mosè e dei profeti. Come afferma un testo biblico molto considerato dagli ebrei, e non solo, sulle loro origini: «Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa». E poco oltre il testo biblico aggiunge: «Gioirai, con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te, di tutto il bene che il Signore tuo Dio avrà dato a te e alla tua famiglia» (Dt 26, 5.11).

Mio padre era un arameo errante significa più o meno che era un siriaco nomade, cioè uno straniero non inculturato. Il problema non è, come Netanyahu e soci vorrebbero far credere, l’antisemitismo. Lo dimostrano adeguatamente anche le molte migliaia di israeliani che chiedono con insistenza da mesi una nuova leadership democratica in Israele. E un dialogo aperto anche con i palestinesi.

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