I beni comuni alla prova delle elezioni amministrative
La grande sfida delle prossime elezioni amministrative, che coinvolgeranno oltre mille e trecento comuni grandi e piccolissimi, sarà quella di mantenere viva l’attenzione sulle questioni reali del bene comune. Ne abbiamo parlato con Marco Bersani, referente di Attac Italia, uno dei principali movimenti “di autoeducazione popolare orientata all’azione” che ha sostenuto e promosso nel 2011 il referendum vittorioso a favore della gestione pubblica dell’acqua. Un risultato che sembra oggi in gran parte inutile considerando i criteri ancora prevalentemente privatistici della risorsa idrica da parte delle amministrazioni locali. Partiamo quindi da questo esempio per affrontare il nodo del rapporto tra movimenti sociali e opzioni politiche.
Da dove si dovrebbe ripartire per dare centralità alla gestione non privatizzata dei beni comuni? Il progetto di legge popolare che avete presentato non sembra fare progressi…
«L'esito referendario non è stato rispettato perché gli interessi a mettere sul mercato l'acqua e i beni comuni sono talmente pressanti da mettere in gioco la stessa idea di democrazia: se con il referendum, il popolo ha detto che non credeva più alla favola "privato è bello", dai poteri forti gli è stato risposto che "se anche privato non è bello, è obbligatorio e ineluttabile". Tutto questo è stato giustificato in nome del debito pubblico, del patto di stabilità e della mancanza di risorse».
Una battaglia persa?
«Certo che no. Anzi. La battaglia per l'acqua continua in tutti i territori e io credo debba ora fare un salto di qualità, contestando direttamente la "narrazione" del debito e affermando che non c'è politica monetarista che possa comprimere i diritti fondamentali, a partire dall'acqua. Territorio per territorio, occorre contestare il patto di stabilità e il pareggio di bilancio, opponendo agli stessi il pareggio di bilancio sociale e la chiusura del deficit di diritti. Nello specifico dell'acqua, occorre sostenere la fuoriuscita delle gestioni dell'acqua dalla logica delle società per azioni, come ha fatto Napoli con ottimi risultati e come sta avvenendo in molte città d'Europa, a partire da Parigi e Berlino».
Cosa può fare un comune per seguire una linea di nuova finanza pubblica da voi auspicata davanti al vincolo del pareggio di bilancio?
«Il patto di stabilità e il pareggio di bilancio sono i nodi scorsoi ai quali gli enti locali sono stati -spesso consapevolmente- legati. Occorre una disobbedienza collettiva, ovvero che molti comuni decidano che, per garantire i diritti fondamentali, il patto di stabilità e il pareggio di bilancio debbano essere sforati; in questa direzione va costruita una campagna dal basso, in modo che siano le comunità locali mobilitate ad imporre ai comuni questo terreno».
Quale azione emblematica sarebbe auspicabile?
«Il dato attuale è che se un comune sfora il patto di stabilità viene commissariato, ma se lo dovessero fare centinaia di comuni consapevoli si riaprirebbe il confronto politico».
Come si può ancora enfatizzare la partecipazione popolare al governo della città se poi si è riscontrato che spesso le pratiche partecipative sono facilmente strumentalizzabili e , pur con le migliori intenzioni, le persone che riescono a coinvolgere in percorsi di autogoverno sono sempre una percentuale minima della cittadinanza?
«La partecipazione è un percorso che va costruito ex novo e che, dopo due decenni di delega, non può essere dato per scontato. Il dato da cui partire è che o la partecipazione riguarda le decisioni o non è: i meccanismi consultivi, da questo punto di vista, sono solo palliativi e, come tali, inefficaci. Perché le persone tornino a partecipare, occorre garantire loro il fatto che possano realmente decidere e quindi incidere sulle scelte che li riguardano. Questo è un processo graduale e occorre porsi l'obiettivo che su ogni tema la partecipazione di oggi sia superiore a quella di ieri e inferiore a quella di domani. Poi, una volta innescato il meccanismo, il coinvolgimento delle persone avverrà di conseguenza».