I 40 anni della Populorum progressio
Ha quarant’anni ma non li dimostra.Nelle sue linee portanti, nel suo contenuto profondo, nelle sue intuizioni circa il futuro, non solo è sempre attuale, ma mostra come cogliesse, già allora, gli indirizzi di un futuro che appena si delineava all’orizzonte. Sto parlando della Populorum progressio, capolavoro dell’insegnamento sociale di Paolo VI, pietra miliare della dottrina sociale della Chiesa. L’ho riletta in questi giorni ritrovandovi la sensibilità, la passione, la profezia e la concretezza di papa Montini. Il grande tema di cui tratta è lo sviluppo, collocato però in un mondo che cambia, dove si coglie già il processo di mondializzazione: La questione sociale ha acquistato dimensioni mondiali (n. 3). Ma lo sviluppo che si richiede non è solo crescita materiale, è sviluppo integrale. Ogni uomo e l’umanità tutta sono chiamati a tale sviluppo plenario che è reso possibile da una fattiva solidarietà che si distende nello spazio e nel tempo: Le civiltà nascono, crescono e muoiono.Ma come le ondate dell’alta marea penetrano ciascuna un po’ più a fondo nell’arenile, così l’umanità avanza sul cammino della storia (n. 17). L’enciclica, pur analizzando il contesto delle strutture economiche, sociali e politiche, non si stanca mai di richiamare la centralità dell’uomo, la sua dignità, il suo valore. Anticipando problemi che oggi investono il mondo intero, la Populorum progressio indica nel capitalismo liberale che considera il profitto come motivo essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, un fattore destabilizzante per la realizzazione di un autentico sviluppo. E rivendica il ruolo del lavoro, della cultura, della politica, dei corpi intermedi, quali protagonisti dell’opera da intraprendere. Nella seconda parte dell’enciclica è il pastore che parla, che insegna, implora: L’uomo deve incontrare l’uomo, le nazioni devono incontrarsi come fratelli e sorelle, come figli di Dio (n. 43). Il messaggio si fa universale e impegnativo: la richiesta di organizzare una vera comunione delle risorse disponibili fra tutte le nazioni. La fraternità proposta non è un atteggiamento di buonismo, ma ingloba l’uguaglianza, la libertà, la reciprocità, la giustizia. Per realizzare tale fraternità ci vuole un cambiamento dei cuori e delle sgtrutture, in una parola, ci vuole un mondo nuovo: Si tratta di costruire un mondo in cui ogni uomo, (…) possa vivere una vita pienamente umana, affrancata dalle servitù che gli vengono dagli uomini e da una natura non sufficientemente dominata: un mondo dove la libertà non sia una parola vana e dove il povero Lazzaro possa assidersi alla stessa mensa del ricco (n. 47). Il monito del papa diventa severo: Quando tanti popoli hanno fame (…) ogni spreco pubblico o privato, ogni spesa fatta per ostentazione nazionale o personale, ogni corsa estenuante agli armamenti diventa uno scandalo intollerabile (n. 53). Ma la sua ultima parola è quella della speranza che non è anelito astratto: Certuni – scrive Paolo VI – giudicheranno utopistiche siffatte speranze. Potrebbe darsi che il loro realismo pecchi per difetto, e anch’essi non abbiano percepito il dinamismo d’un mondo che vuol vivere più fraternamente, e che, malgrado le sue ignoranze, i suoi errori, e anche i suoi peccati, le sue ricadute nella barbarie e le sue lunghe divagazioni fuori della via della salvezza, si avvicina lentamente, anche senza rendersene conto, al suo Creatore (n. 79). Messaggio che risuona oggi, nel nostro mondo in piena globalizzazione, come una parola di luce, sensata e carismatica, carica di sincera simpatia e amore. Davvero, lo sviluppo continua ad essere il nuovo nome della pace.