I 13 novembre
Un anno dall'attacco al Bataclan. La tragedia diventa commemorazione. I problemi irrisolti
Ci sono ormai gli 11 settembre (Torri gemelle), i 5 marzo (attentati madrileni) e ora i 13 novembre (strage multipla a Parigi). La tragedia diventa commemorazione e perde d'intensità. I propositi gridati sulle piazze (Je suis Charlie, I am NYC, siamo tutti qualcosa) diventano scritte sulle magliette. I politici si riposizionano sullo scacchiere elettorale cercando di essere un po' più anti-islamisti ma senza irritare certi Paesi arabi con cui si continuano a fare affari nonostante finanzino frange salafite o wahhabite.
L'essere umano ha una straordinaria capacità di adattamento. Daesh ha trovato un nuovo nemico in armi, The Donald, ma basterebbe un buon embargo economico per far fuori il cosiddetto califfato in poche settimane. E l'Europa guerreggia in Siria, in Afghanistan, in Siria, in Libia e nel Sahara. A Parigi non si muore più di kalashnikov, ma ad Aleppo, a Mosul e a Sana'a sì. Innocenti sulle rive della Senna, innocenti (ma di serie B) nelle vie della città più bella della Siria. "Life goes on", dicono gli anglosassoni.
I 137 morti di Parigi stanno a ricordarci che la guerra asimmetrica col terrorismo di origine islamista avrebbe bisogno di una strategia globale condivisa e soprattutto economica per rimuovere le cause di una frattura profonda e purulenta tra certo Occidente e certo mondo arabo. Però si continua a bombardare, magari coi droni, ma si bombarda sempre.
I 137 morti della Ville Lumière ci dovrebbero spingere a una politica intraprendente europea nell'immigrazione, nell'integrazione, nella sicurezza, nel dialogo. Qualcosa si fa, ma sempre più ci si infila in strettoie nazionaliste che potrebbero portare a nuovi conflitti in breve tempo.
I 137 morti del 13 novembre 2015 ci ricordano che la vita umana, ogni vita umana è unica e irripetibile, che la barbarie del sangue versato con la violenza va combattuta con strategie di pace, riconciliazione e perdono.