Hrabal, le meraviglie della vita “stramparlona”

Eccolo, Hrabal, morto suicida a ottantatré anni nel 1997 per troppo amore della vita, perché la vita non gli diceva più niente e lui, che della vita aveva illimitata pietà (pietà vera, quella che non si dichiara mai), non poteva stare senza le parole della vita, le parole che, sì, “sono soltanto una visita di cortesia della realtà”, ma che non sono sostituibili da nient’altro, se è vero che “il digiuno della parola è la cosa più spaventosa”; e non sentir dire più niente dalla vita “stramparlona” era troppo. Così Sergio Corduas, che con Annalisa Cosentino ha curato appassionatamente questo bel Meridiano Mondadori di opere, per metà inedite in Italia, dello scrittore ceco, ha giustamente posto in esergo alle sue pagine introduttive le due frasi sopra citate, tra cui sta tutto l’uomo e il poeta. L’animo di Bohumil Hrabal – proletario, antitotalitario, antiborghese – è intimamente lirico, e traduce le sue asciutte e insieme torrenziali esperienze in un continuo sperimentare espressivo che – ecco il segno di una qualità non raffazzonata – invece di allontanarnelo lo avvicina alla realtà più concreta e palpitante, più aspra e irrinunciabile e non edulcorabile, tanto quanto, a sprazzi, con ditate lievissime, a quella più tenera e quasi indicibile. Questo, già nella prima opera significativa, il racconto Jarmilka, dove l’omonima giovane operaia, abbandonata incinta, intreccia un lieve gioco di delicatezze con lo “zietto”, il più anziano operaio Hrabal, che la protegge come può e ne è ricambiato. Anche se “la vita è una grande illusione, una deformazione, una prospettiva “, c’è l'”attenzione che non distingue ” (stupenda espressione sinonima di un disarmato tenace amore) a tradurla in parola senza illudersi sulle parole, anzi, dal lavoro artigiano su di esse ricavando non l’orgoglio dello scrittore ma la gratitudine dolorosa del descrittore, come in questo bellissimo brano senza punteggiatura: “all’inizio di tutto c’è la meraviglia e appena inizi a meravigliarti di qualcosa in un certo senso sussulti in un certo senso sei terribilmente passivo ma non è niente è solo un’umiltà piena però di scintillante attesa è lo stato che precede l’annunciazione e hai gli occhi aperti hai l’anima aperta e all’improvviso la tua passività si tramuta nel suo contrario e tu non soltanto vuoi ma devi trascrivere tutto e scrittore è colui che inizia a ricopiare ciò che ha visto ciò che si è illuminato e non è altro che una grande gioia di qualcosa, del fatto che c’è qualcosa al di fuori di te” (Vita nuova). A lato di questa “meraviglia” c’è un’ideologia esistenzialistica nutrita di meditazione saturnina, tra il pessimistico il rancoroso e il divertito, molto ceca, che coinvolge Dio stesso in un’universale imprecazione e arriva fino al sarcasmo blasfemo; ma è debole intellettualmente, e invece prende carne esistenzialmente, là dove Hrabal è veramente forte, nel sentire lo sgocciolio della vita; che diventa tremendo e verissimo nelle molte atroci pagine di memoria della guerra, dei nazisti, della corruzione e dell’impietrimento umano che ne deriva. Infatti a questa altezza, al livello esistenziale della carne che soffre e spera, ecco un personaggio in inatteso incontro non di fede ma di immedesimazione con il Crocifisso: “Credo in te, Cristo, perché sei un mendicante proprio come me, perché io sono un mendicante proprio come te. Ti parlo sordamente e con la stessa sordità tu vai dal sordo Padre”. In questa identificazione tutti i colpiti e gli “stramparloni” della vita si ritrovano, e ritrovano nel fondo della loro “banale” esistenza (ma quale esistenza è banale?) la “perlina” che la illumina poeticamente brillando “all’interno della più trita quotidianità ” (A. Cosentino). Il bello è che questa perlina sul fondo (titolo anche di un racconto) non ha proprio niente di vistoso, solenne o diversivo, è il minimo trasalimento o sorriso o sguardo assorto che permette allo “stramparlone”, “strumento della lingua “, dice Hrabal, di incantarsi al “monologo interiore che lo accompagna in giro per il mondo”, di osservare tutto e non dimenticare nulla. E poi, in una bettola (famosissime quelle di Praga), di tirare fuori dalla gola, con l’aiuto magari della rinomata birra, il nastro infinito del raccontare modificando, interrompendo, ramificando il suo ininterrotto mito, che corre sempre sul versante opposto a quello dell’erudita scarnificazione intellettuale: “la chiacchiera è il pensiero che scorre fuori dalla bocca e si dirige verso la comprensione e il silenzio “. I discorsi della gente diventano così perla, poesia minima, inapparente, indistruttibile. Hrabal è cittadino ideale e realissimo di quella “Praga magica” sulla quale A. M. Ripellino ha scritto un memorabile libro. Viaggia negli inferi tragico-grotteschi della coscienza sia culturale che esistenziale contemporanea, niente affatto da naïf, ma come uno scrittore tardo medievale invasato dall’ineluttabile eppure mai definitivamente consumata catastrofe del mondo. Come il protagonista alter ego di Una solitudine troppo rumorosa, operatore alla pressa, vede il mondo come una discarica tanto metaforica quanto materiale della cultura e dell’umanità stessa del secolo, a cui non nega però la sua misericordioso-ironica assoluzione “stramparlona”. B. Hrabal, Opere scelte, a c. di S. Corduas e A. Cosentino. con un saggio introduttivo di J. Pelán, Mondadori, pp.CL+1858, euro 49.

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