Homo Faber

Al Castello Sforzesco a Milano una rassegna dedicata al ritorno al fare nella produzione artistica contemporanea. Dalla ceramica al legno, dalla plastica all'alluminio, la materia e l'ingegno umano che la lavora ne sono i protagonisti
Burri di Mario Ceroli

Sbaragliate le soglie dell’idealismo e di tutti gli altri “ismi” novecenteschi, cosa resta della produzione artistica se non tornare alle origini, alla materialità pura? Non tuttavia come concetto ideologico, espressione di un determinato pensiero ideale, quanto piuttosto come lavoro manuale, opera di fatica non solo mentale ma fisica. Spesso infatti ci dimentichiamo, ormai, che anche certi grandi artisti del passato – penso alla scultura – hanno prodotto dei lavori di alta poesia, ma sottovalutiamo lo sforzo fisico di lavorare sulla materia, sulle cose inanimate per dar loro un pensiero.

Perciò la rassegna a Milano intitolata, appunto, all’Homo Faber risulta parecchio interessante proprio su quest’argomento.
I titoli risulterebbero a prima vista poco comprensibili o stravaganti, eppure a ben guardare dicono molto. Prendiamo “Disgrazia con narcisi gialli” del 2011 di Bertozzi e Casoni: una ceramica policroma lussureggiante, grassa nel colore, nella materia, con quel mazzo di fiori che sboccia dalla terra come un fiotto di vita sulla sporcizia. È una ceramica contemporanea, sembra parlare di morte, e invece quanta vita, che pulsazione di terrestrità.

Passiamo a “Burri” di Mario Ceroli: una installazione in legno del 1966, di desolante eppur calda solitudine. L’uso del legno con la sua levigatezza, le sagomature di una sedia, di un profilo umano – quello di Burri appunto – fermo di fronte a un quadro-tavola liscio, possono apparire elucubrazioni mentali. Forse anche lo sono. Ma l’uso del legno, materiale di sconvolgente richiamo alla natura primigenia, dona respiro all’opera. La si guarda, e si sta bene.

La galleria è ricca. Si passa dalla ceramica al legno, dalla plastica all’alluminio. Insomma, la materia come l’uomo la guarda, la struttura, la decompone, seguendo le regole – non regolabili – della fantasia.

Penso a "The songs writers", matite colorate su carta di Marco Mazzoni (2012), un microcosmo di uccelli, fiori ed una bocca che canta, forse come gli uccelli, forse meglio di loro, forse accompagnandoli. L’autore ci lascia liberi di indovinare ciò che le sue matite, composte come una partitura musicale, sanno farci immaginare.

Della serie: la materia è materia, ma l’ingegno umano, le sue mani oltre che la sua mente, sanno farla diventare poesia. Non solo nel passato, ma anche oggi. Per questo, si tratta di una rassegna da non perdere.

Milano, Castello Sforzesco. Fino al 6/1 (catalogo Allemandi)

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