Hollywwod tra arte e show business

Le tendenze degli studios. L’avvento del 3D, il remake e la crisi di creatività. Ne parliamo con un esperto di cinema americano: Marco Spagnoli
Marco Spagnoli

Conversare con Marco Spagnoli di cinema americano è un piacere perché si comprendono non solo le tendenze, ma anche le ragioni di alcune scelte strategiche degli studios di Hollywood. Marco Spagnoli è un cineasta, direttore di Festival e un affermato critico cinematografico per numerose riviste cartacee e virtuali.

Quali sono le tendenze del cinema americano e di quello hollywoodiano?

«Intanto bisogna chiarire che il cinema per Hollywood non è arte, ma è show business, sono affari. Lo dimostrano gli accordi del vice presidente Joe Biden con la Cina che prevede la distribuzione di 14 film pin più ogni anno nel mercato cinese. La Dreamwork animation, inoltre, aprirà uno studio di produzione direttamente nel più popoloso Paese orientale. Sono segnali importanti che attestano come Hollywood si orienti verso la Cina. Non vuol dire fare film per il mercato cinese, ma realizzare mega produzioni per tutti i gusti degli spettatori, per tutti i tipi di persone, adatti in tutto il mondo. Questo perché dai mercati internazionali Hollywood guadagna molto di più che dal mercato nazionale».

Nella classifica dei primi dieci film per incassi nel 1981, in Usa, sette erano ideati da una sceneggiatura originale, nel 2011, nessuno: solo sequel e adattamenti da romanzi. Come si spiega il vasto uso dei remake?

«I remake, come isequel e i prequel hanno una spiegazione tecnica. Nella produzione di un film quello che costa di più sono la ricerca e lo sviluppo di un soggetto e di una storia originale. I costi della sceneggiatura sono abbattuti, anche se i sequel incassano di meno, perché diminuiscono le spese per i contratti degli attori e per la definizione dei personaggi nelle sceneggiature. Se il primo film ha incassato bene, gli studios te ne fanno fare un altro, perché in ogni caso ci guadagnano . Concepire, infatti, e realizzare un nuovo progetto è più rischioso e prevede maggiori investimenti».

Nel 2005 c’erano negli Usa solo 98 schermi in 3D, nel 2012, 43 mila, perché l’avvento dei film in terza dimensione?

«Il passaggio al 3D è stato motivato dalla necessità di passare al digitale. Anche qui per ragioni economiche perché l’industria risparmia almeno un miliardo di dollari. Le pellicole di buona qualità, una copia nuova di 35 millimetri, non come quelle che girano in Italia, si vedono anche meglio del 3D. Col digitale, però, si risparmia perché si abbattano i costi delle copie e della distribuzione. All’inizio il 3D doveva essere un accessorio della digitalizzazione, poi, è diventato un’esca per far passare gli esercenti al nuovo formato. La qualità dipende, naturalmente, dall’uso che se ne fa. Eccellente in James Cameron, in altri scelta marginale e scadente». (continua)

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