Hollywood, una magnifica illusione?
Ogni storia, anche una novelletta da quattro soldi ha qualche cosa che appartiene all’universo. Ogni storia, per quanto breve, comincia con la creazione e termina col giudizio finale. Così scriveva Chesterton in Everlasting Man e lo stesso orizzonte di senso si trova nel libro La magnifica illusione, un viaggio nel cinema americano (Fazi Editore) di Antonio Monda. Monda in America ci vive dal 1994 e il suo sguardo è quello di un osservatore diretto, con una passione autentica e divorante per il cinema ma con l’innocenza di chi mette in conto l’eterno nel bilancio della propria vita. La sua ricerca gli fa scoprire valori umani autentici e universali anche negli autori più impensati e valorizzare particolari originali su film che, forse, avevamo valutato superficialmente. Il suo, naturalmente, non è uno sguardo disincantato ed idilliaco e riesce a stroncare film osannati dalla critica. Un esempio per tutti: Matrix. Il protagonista sa che nel suo caso la missione non passa attraverso il dolore e la crocifissione, ma si conquista grazie ad una serie di esercitazioni fisiche che preludono a spettacolari combattimenti. Monda affronta il cinema statunitense, sottraendosi sia ai facili giudizi sull’industria degli studios hollywoodiani sia all’enfasi della bontà dei film indipendenti. Anche quando è mediocre – scrive -, il cinema americano riflette l’energia giovanile della cultura d’origine, e nei casi in cui racconta la mediocrità è sempre evocativo. Io sono convinto che sia la mancanza di intellettualismo dovuta a questa gioventù a consentire più facilmente che altrove dei risultati artistici. Non incontravo Antonio Monda dal 1998 quando nella sua casa di New York, animata da tre bellissimi bambini, parlavamo di film, di progetti cinematografici. Il dialogo è ripreso con l’occasione della presentazione del suo libro a Roma. Hai un punto di vista privilegiato per osservare il cinema statunitense. Insegni infatti sceneggiatura e regia alla prestigiosa New York University, la stessa dove Martin Scorsese imparò l’arte filmica. Secondo te, dove sta andando il cinema americano oggi? Il primo dato importante è che oggi gli autori più interessanti non sono più nel cinema indipendente ma lavorano all’interno dell’industria. Si tratta di un gruppo di registi diversi per spessore, personalità, ambizioni: Paul Thomas Anderson, James Gray, Wes Anderson, Sofia Coppola, Spike Konze, David O. Russel, Todd Solondz, Richard Linklater, Neil Labute, Kenneth Lonergan, Terry Zwigoff, oltre ovviamente a Quentin Tarantino. Tutti autori di film che trovano i loro finanziamenti dentro gli studios, cosa che dieci anni fa non si pensava, non si diceva e sembrava addirittura scandalosa. Il gruppo potrebbe avere sul cinema statunitense l’impatto che ebbe la generazione che conquistò il cinema in coincidenza con il crollo dello studio system: Coppola, Cimino, Scorsese, Spielberg, De Palma. Un secondo dato: il cinema americano offre spes- so una spiritualità nascosta, sulla quale non si è ancora riflettuto a sufficienza. Pensa agli ultimi film di Spielberg. Nell’epilogo di Salvate il soldato Ryan, un veterano della seconda guerra mondiale si tormenta sul senso della sua intera esistenza. La richiesta accorata del soldato (Dimmi che sono un brav’uomo) non è altro che la risposta al monito di san Giovanni della Croce: Alla sera della vita saremo giudicati solo sull’amore . Hai una sconfinata ammirazione per Spielberg. Nasce dalla sua attenzione ai temi spirituali? Certamente no! L’ammirazione è artistica ma, essendo a mia volta un credente, è un argomento che mi tocca da vicino. Non posso non accorgermi che in Amistad c’è per esempio il racconto della scoperta di Cristo e del Vangelo; che in A.I. c’è il piccolo robot che veglia duemila anni in fondo al mare di fronte alla statua della Fata Turchina. Poche immagini come quest’ultima hanno saputo rappresentare l’idea di cosa sia la fede. Il piccolo robot guarda ad una statua che forse è, o forse non è, la Madonna e dice: Sei forse tu la fonte di tutta la speranza e della redenzione stessa. E cosa può essere se non un simbolo della fede? Affidarsi a qualcosa a cui noi attribuiamo qualcosa di salvifico. Non posso non accorgermi che in Minority Report c’è tutto un discorso sul libero arbitrio, quindi sono temi assolutamente religiosi. Detto questo, l’importante è che questi temi siano poi artisticamente compiuti nel modo cinematografico in cui si sono sviluppati. Come è possibile essere un artista lavorando all’interno di un’industria regolata dalle leggi del profitto? Non esiste industria che non sia stata regolata e non lo sia dalle norme del profitto. È sempre stata un’illusione ritenere che la libertà dal profitto stesso sia garanzia di qualità artistica. Del resto, i grandi artisti hanno avuto a che fare con dittatori, con papi grandissimi dal punto di vista religioso ma prepotenti come Giulio II, prepotenti artisticamente s’intende. La forza principale del cinema americano è identificabile da sempre nella coesistenza dell’anima industriale con quella artistica e molti dei risultati più alti sono stati raggiunti da registi che hanno utilizzato al meglio tale duplicità. John Ford, Billy Wilder, Alfred Hitchcock e Steven Spielberg sono persone che hanno avuto un loro rendiconto economico, ma sono anche dei grandi artisti. Se dovessi individuare un percorso morale all’interno della cinematografia americana, quali tracce ci indicheresti? Nel film About Schmidt di Alexander Payne si parla di una persona triste e squallida, che ritiene la sua vita una nullità. Più per noia che per autentica pietà decide di partecipare ad un programma di adozione a distanza per dei bambini africani. Nel momento più buio e disperato della sua esistenza trova una lettera inviata dal bambino adottato in Africa. Schmidt scopre tra le lacrime che la sua vita ha un significato ben più profondo e insondabile di quanto avesse mai immaginato e che l’unico valore importante nell’esistenza dell’essere umano è la forza rivoluzionaria dell’amore. Hai organizzato diverse rassegne cinematografiche al Moma e al Lincoln Center di New York. Ora hai in programma una rassegna dal titolo The Hidden God. Dov’è il Dio nascosto nel cinema statunitense? La stessa domanda che tu mi fai io l’ho rivolta ad un critico cinematografico di Civiltà cattolica, che è anche un sacerdote. Gli ho chiesto quali sono i film dove c’è il Dio nascosto. Lui mi ha risposto: tutti. Ovviamente è un paradosso, è un’esagerazione, ma io ritengo che sia uno dei grandi temi, se non il tema con la T maiuscola di cui non si parla mai. Questa è una provocazione, secondo me, ed è un assurdo che non se ne parli.