Hollywood celebra sé stessa
E così, la notte dell’89a edizione degli Oscar, a fronte delle polemiche anti-Trump di alcune star, ha celebrato il mito di Hollywood, la fabbrica del cinema mondiale. Sei statuette sono infatti andate a La la land, arrivato con ben 14 candidature, come il mitico Titanic: miglior regia (Damien Chazelle), attrice protagonista (Emma Stone) e poi la scenografia, la colonna sonora, la fotografia, la canzone. Al seguito Moonlight di Barry Jenkis come miglior film, sceneggiatura non originale, attore non protagonista (Mahershala Ali) e poi Manchester by the sea di Kenneth Lonergan con due Oscar, a Casey Affleck miglior attore protagonista (fratello di Ben, ma più intenso di lui) e alla miglior sceneggiatura originale. Due statuette al filmone di Mel Gibson, La battaglia di Hacksaw Ridge per il montaggio e il sonoro.
La nostra Italia non ha preso nulla, Fuocoammare di Gianfranco Rosi è stato sostituito da O.J.: Made in America di Ezra Edema. Miglior film straniero, giustamente, Il cliente, dell’iraniano Asghar Farhadi.
Alcune considerazioni sono inevitabili.
C’era davvero bisogno di premiare La la land, che ha già fatto incetta di premi, ossia un musical leggero, danzante, gradevole quanto si vuole: puro divertissement, ma che non pone alcun problema? E’ forse questo il punto: nell’America dell’era Trump (il quale è contro le star hollywoodiane) si è preferito sorvolare sui temi importanti e rituffarsi nella nostalgia del passato, nella celebrazione della città dei sogni dove amore, desiderio, musica si incrociano, ballano e, pur senza il finale consolatorio dei musical d’epoca, non si smette di inseguire e di proporre l’incantesimo che è – o vorrebbe essere – il cinema. C’è voglia di evasione, di levità, garantite da un prodotto professionale al massimo livello.
Tuttavia, sulle tematiche serie, forse anche sgradevoli come una difficile paternità o un romanzo di formazione di un ragazzo nero negli Usa d’oggi, Hollywood non poteva disimpegnarsi o sorvolare, e ciò spiega gli Oscar dati al rude Manchester by se a- silenzi glaciali ma urlanti – e a Moonlight, ritratto di un ragazzo che diventa uomo (ha aperto la Festa del cinema a Roma) tra mille difficoltà personali e sociali. Due film tra i più belli e veri degli ultimi anni perché raccontano non il sogno della vita, ma la vita così come essa è con le sue asprezze, i dolori e le speranze. Avrebbe certo meritato di più, Manchester by the sea. Ma chi vota ad Hollywood ha sempre l’orecchio teso al mercato, al successo senza troppi problemi.
Naturalmente, l’America è l’America, la portatrice della libertà al mondo, anche a quello cinese, come si vede nello spettacolare The great wall tuttora in sala. Perciò i due Oscar al film di Gibson – meritati – fanno parte dell’ideale eroico, made in Usa da “esportare” nel mondo.
Eppure, nella festa della notte delle stelle, è mancato qualcosa. Ossia, la dovuta attenzione ad un lavoro di notevole spessore come dramma umano e resa cinematografica, cioè Barriere, interpretato e diretto da un grande Denzel Washington. La storia negli anni Cinquanta di Troy, afroamericano respinto dal baseball per il colore della pelle, padre di famiglia in conflitto col figlio adolescente, netturbino che lavora e soffre. Un ultimo della società. Troppo forte per i “bianchi padroni” di Hollywood? Meno male che è stata premiata Viola Davis come miglior attrice non protagonista. Sinceramente, troppo poco.
Ma quest’anno è andata così. Hollywood vuole sogni, non troppi problemi.