«Ho soccorso i migranti in mare»
Le condizioni del mare sono mutevoli. Non sempre si riesce a determinarle prima, soprattutto se non si è abituati a scrutare l’orizzonte, a cercare il “tempo” sulla linea d’ombra che separa il continuo mare/cielo.
Quando contattano una nave militare per i soccorsi per i naufraghi, di solito, ci sono due tipi chiamate. Molto spesso sono i pescherecci che vedono un natante pieno di esseri umani che non sono in grado di “governare”, cioè direzionare e muoversi nell’acqua. Quando ci sono i pescherecci italiani, benché loro proseguano a fare il loro lavoro, in qualche modo continuano a seguirli. Trovare le barche a questo punto è più facile, molto spesso conosci le condizioni del mare prima, ancora più spesso i pescatori danno un primo aiuto.
L’altra chiamata è quella che ti arriva dal Quartiere Generale, che ti chiama e ti avvisa che in una determinata posizione si prevede che ci sia un natante. Che ci sia mare agitato o calmo, non fa differenza, bisogna andare a vedere. Molto spesso questo genere di segnalazioni sono le più complesse da raggiungere, perché la segnalazione è frutto di una telefonata che arriva dalla barca stessa. Sovente sulle barche non hanno strumenti per determinare la posizione e quindi il ventaglio di ricerca è vasto. Peggiori sono le condizioni meteo, peggiori sono le condizioni di ricerca, perché non è possibile far volare gli aerei o gli elicotteri.
Ulteriore dato, è che i mezzi utilizzati dagli scafisti sono gommoni di plastica e le barche sono di legno: non si posso individuare con il radar perché non hanno parti in metallo che riflettano le onde elettromagnetiche. Quindi sono molto difficili da individuare, è come cercare un ago in pagliaio. Infine quando si trova una barca in mezzo al mare, il recupero delle persone non è un’operazione semplice. Richiede molta attenzione e anche pregare. Generalmente i migranti sono messi almeno da una settimana sopra una barca. Alcuni non sanno neppure nuotare, hanno paura, sono infreddoliti.
Molto spesso il mare è agitato. E la comunicazione è resa difficile dal loro utilizzo del dialetto natìo. Questo vuol dire che molto spesso non si capiscono nemmeno tra loro. Chi è seduto in quella barca è al culmine di un cammino che dura da diversi mesi, che è costato migliaia di dollari. La fretta, la mancanza della cultura della sicurezza rischia di mettere in pericolo tutti, operatori compresi. Si spostano sulla barchetta dove stanno da settimane, non capiscono che la migliore cosa è stare fermi e attendere.
Quando finalmente li prendi tutti a bordo, alcune volte bisogna vincere la diffidenza. Non accettano acqua, non accettano biscotti, per paura che siano avvelenati. Poi arrivi in porto e li affidiamo ai soccorsi e alla identificazione. Il lavoro dei marinai in mezzo al mare per salvare queste persone, molto spesso, è sconosciuto, non è premiato, non è riconosciuto, perché la salvezza di un uomo in più fa meno clamore di un morto. Ma quando lo trovi il morto, o i morti, in mezzo al mare, è una scena che non si può descrivere e ti penti per tutta la vita di averla vissuta. Recuperare un morto in mezzo al mare, soprattutto se è da giorni in acqua è la cosa peggiore che possa accadere ad un uomo. Il racconto dei colleghi che recuperarono centinaia di morti nella stiva del peschereccio affondato a un miglia da Lampedusa è tragico e anche solo ascoltarli fa male al cuore.
La questione non è se salvarli in mezzo al mare sia un segnale di debolezza, come se dimostrare umanità sia un peccato. La guerra, la fame, la mancanza di alternative, portano i più disperati a viaggiare, e più disperati sono e più verranno qui da noi. Occorre riportare ordine al di la del mare, un governo, un sistema di accoglienza. La soluzione albanese, con le basi della Marina Militare direttamente in Libia, potrebbe forse fermare queste partenze.
Antonello Ferrara