Ho partorito in Libia

Le torture e le violenze. Cosa vuol dire portare dentro di sé una vita imposta? Mentre il marito è ancora di là dal mare…

Incontro L. in un piazzale che alle dieci del mattino è già rovente. Si ripara all’ombra di un pino romano, in mezzo a tende e accampamenti di altri rifugiati, migranti e fuoriusciti dal sistema. So che è appena arrivata, perché ieri non c’era. So che è eritrea, dai lineamenti del suo viso e perché è insieme ad altre ragazze che portano il crocifisso. La maggior parte di loro sono molto devote.

Mi avvicino per sapere se ha bisogno di qualcosa. Sta cercando di allattare il neonato che ha tra le braccia, ed è disperata perché lui è poco reattivo, non si attacca, e perché, mi dice, ho delle cicatrici nel seno, sister, fanno molto male. Me le mostra.

«Quanto ha il bambino?», chiedo. Sei settimane. E quando sei arrivata? Ero in Libia, ho attraversato il mare e sono sbarcata due settimane fa. Legge sul mio volto il semplice calcolo ed i miei occhi che si sgranano. «Sì, ho partorito in Libia». La pausa che segue crea l’empatia necessaria perché lei continui il racconto, mentre io cerco di immaginare anche solo lontanamente cosa voglia dire, a 24 anni, partorire in un “centro di detenzione” libico, cosa voglia dire prendere il mare aperto su un’imbarcazione di fortuna con in braccio una creatura di appena un mese. Un pensiero fuori dalla mia portata, ma non lo è il groppo che ho già in gola.

Mentre mi racconta che all’arrivo il bimbo è stato visitato da un dottore, e le dico che ne avrà ancora bisogno (la scabbia si vede chiaramente, sia su di lei, che sul neonato), arriva una bimba di un paio d’anni, si avvicina, vuole giocare. Penso che sia di una delle altre ragazze vicine, invece no, è sua. Ha due anni e mezzo, mi dice, lei è di mio marito. La precisazione mi rende perplessa ed L., attenta, sensibile e coraggiosa, lo capisce e precisa: «La bambina è di mio marito, il bambino no, è dell’uomo che mi ha fatto questo», dice, indicando la cicatrice che dal viso attraversa il collo e scende lungo il torso.

«È stata torturata», aggiunge una delle ragazze vicine, per estorsione. Per la prima volta abbassa lo sguardo e tace. Non insisto oltre, saranno poi le persone che l’hanno accolta in un luogo sicuro, i professionisti che se ne sono presi cura, che riferiranno che si tratta di torture con cavi elettrici che le hanno bruciato i condotti lattiferi. Le spiego, intanto, che sono una fotografa, e sto raccogliendo le testimonianze di chi incontro. Lei, lucidamente partecipe, si mette in posa, dicendomi: «Yes, take a picture, sister, send it to the pope, because we need help» (sì, fai una foto, sorella, mandala al papa, perché abbiamo bisogno di aiuto).

Fotografo il momento, la sua maternità voluta e quella frutto di violenza, e ancora, non posso capire cosa voglia dire far spazio dentro di sé ad una vita imposta. Ma posso rispettarla, sentirla, darle la voce che non ha. Si stanno avvicinando, intanto, alcuni uomini. Siamo in un luogo di sofferenza e disagio sociale, e purtroppo non tutti sono tranquilli. Anche se con buone intenzioni, a volte tra arabo, francese, tigrino e inglese si crea tensione dal nulla.

Da sola è facile preda. Le chiedo se suo marito sia con lei. Ricevo risposta negativa, è rimasto in Libia, ancora in attesa di attraversare il mare e raggiungerla. Dicono tutti così, attraversare il mare, come se fosse un deserto. Per noi, abituati a poter prendere un traghetto e semplicemente spostarci, via mare, da un luogo all’altro, sembra una frase stupida, infantile. Non lo è. Per loro il mare è un altro deserto pieno di pericoli da affrontare cercando di non morire. E suo marito è ancora dall’altra parte di quel deserto d’acqua. Un deserto da cui il nostro governo non vuole più salvarli.

Inevitabile, allora, ad ogni notizia di una nave bloccata, ad ogni bollettino di naufragi, pensare a L. e suo marito. Se lui sia ancora lì, se sia riuscito ad arrivare, se sia invece tra le centinaia di persone morte nel mediterraneo in queste settimane. Se riusciranno mai a ritrovarsi, a superare le torture, la paura, gli stupri e tornare ad essere una famiglia. Inevitabile chiedersi se sono queste, le persone da cui dobbiamo proteggerci, contro cui dobbiamo alzare muri e chiudere frontiere.

 

Testimonianza raccolta a Roma, durante l’estate 2018. L. ha 24 anni, è rimasta una settimana a Roma prima di andare a Ventimiglia, poi chissà, non ha più dato notizie.

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