Ho aperto casa a Francesco
Vuole stirare. E poi qualche volta cucinare. Se una cosa è fuori posto in casa, sul divano o sul tavolo, interviene lui. Occhi scuri, capelli cortissimi. Fisico asciutto, spiccato gusto nel vestire, uniti al suo essere sempre pronto a fare il primo passo. Anche alle donne piace. Lui lo sa. Francesco (nome di fantasia) sorride e allarga le braccia. Ha il sorriso fresco di chi a trentadue anni ha ritrovato un po’ di speranza. È la stessa di Maurizio Rolando che con la sua famiglia, moglie e figlia, l’ha accolto nella sua casa a Monasterolo di Cafasse.
Le mille anime si conoscono tutte – è sempre così nei paesi delle valli alpine – ma quando Francesco è arrivato qui non l’hanno preso come uno sconosciuto, come un “forestiero”. «Tutti lo hanno accolto», spiega Maurizio, classe 1959. La sua famiglia ha fatto il passo più difficile, un bell’azzardo. Già, perché sono pochissimi finora a Torino ad aver ospitato un profugo o un richiedente asilo politico nella propria casa. Maurizio, Enrica e Marta ci sono riusciti. Ne hanno parlato a lungo dopo quella richiesta a fine aprile dell’Arcivescovo di Torino Nosiglia: «Aprite le vostre case. Ciascuno si senta coinvolto in prima persona».
Mica facile. Rinunciare a un po’ di spazio e regalarlo a chi è fuggito, a chi ha fame. Matteo 25, versetto del Vangelo che mette con le spalle al muro: «Qualunque cosa avete fatto al più piccolo l’avete fatto a me – ripete Maurizio –. Mi ha sempre colpito. Non è semplice. Però spinge all’azione. Per me che sono cresciuto con gli insegnamenti del rivoluzionario cardinale Pellegrino, aprire casa è stata una bella conseguenza».
Francesco, in Italia dal 2009, è stato accolto come un figlio. Nello stesso letto del figlio vero di Maurizio, Davide, da tempo al lavoro in Val d’Aosta. Marta, la più piccola, è diventata una principessa per Francesco, ingegnere che nel week end torna da Monasterolo a Torino. «Ha solo un desiderio – spiega Maurizio – lavorare. Così grazie a un amico gli ho trovato due giorni di impegno in un bed&breakfast in centro città. Era il profilo ideale, quello che cercavano. Ecco perché mi dico che per molti immigrati ci potrebbero essere soluzioni di lavoro da noi. Senza togliere nulla agli italiani».
Difficile dire, guardandoli, se Francesco e Maurizio sono padre e figlio o fratelli. O entrambi. «Lo porto con me nella Cooperativa sociale dove lavoro. Lui è contentissimo», sorride Maurizio. Condividere tutto, anche la cena con la nonna che vive sotto di loro. Anche quella tavola che Francesco per anni ha evitato, cercando di mangiare da solo. Peccato solo per quelle acciughe al verde che non ha voluto apprezzare. «Alla nonna un po’ è dispiaciuto, ma se ne è fatta una ragione. A Francesco non piace il crudo. In casa, le serate sono divertenti, discutiamo di politica, di democrazia, di conflitti – non nasconde Maurizio –. Metà in italiano, metà in inglese, che ovviamente lui mischia al suo dialetto. Così si ride, ma ci capiamo benissimo. Se è cattolico? Molto più di noi. Prega spesso e si chiede perché i gruppi di preghiera ad agosto non si riuniscono. Difficile spiegarglielo».
Francesco sa che in Italia continuano a sbarcare profughi. E a morire. Sa bene anche delle polemiche e degli scontri politici. Lui sogna un giorno di fare il percorso inverso, di tornare in Nigeria. Inutile chiedergli quando. Non può saperlo. Ora resta qui, nel paese e nella famiglia che lo ha accolto. Tra le mura di casa dove lavora e prega. Antica Regola. Che faremmo bene a riscoprire anche noi.