Hitler è tornato
Incassi record in Germania per un film che da noi uscirà solo nei giorni 26, 27 e 28 aprile ed è perciò un lavoro da non perdere. I film su Hitler non si contano – uno per tutti, il terribile e bello “La Caduta” – e ora c’è il lavoro di David Wnendt, tratto dall’omonimo best-seller di Timur Vermes: racconta del dittatore, che si sveglia da una sorta di ibernazione proprio nel prato dove sorgeva il rifugio nel 1945 e capitombolato nel 2014. Intorno non ci sono i resti della Berlino nazista, tutto è cambiato, la città è multietnica – ci sono i turchi –, cantieri in costruzione e lui si trova spaesato, tanto più che la gente lo crede un meraviglioso attore e non proprio lui, Adolf Hitler, come egli si presenta a tutti.
In quasi due ore (il film andrebbe forse un po’ accorciato) il personaggio del passato diventa personaggio del presente, perché Adolf capisce la potenza dei media e non li fugge, anzi sono i media stessi, cinicamente, che lo espongono al pubblico. E qui il racconto diventa cronaca attuale, perché il regista abilmente mescola il passato con le realtà del presente, scoprendo attraverso le interviste che Hitler non è affatto dimenticato, fa parte della storia stessa della Germania, anche se i giovani sono poco istruiti e addirittura i neonazisti non si ritrovano in lui. Particolarmente toccante è la scena dell’incontro con un’anziana ebrea, apparentemente malata di Alzheimer, che lo riconosce e lo caccia di casa: la tragedia è dunque tutt’altro che dimenticata.
Parabola dolorosa e onirica, il film ha il pregio di alternare momenti comici ad altri più drammatici e alla fine rimane una prova di coraggio del regista e della Germania stessa, che non ha paura di riscoprire il passato e dei suo effetti nell’attualità benché distorta dai media e dall’incultura.
Una lezione per noi, se si pensa che anni fa un film come “Porzus” di Martinelli, che trattava dell’eccidio dei partigiani cattolici da parte di quelli rossi, risulta oggi difficile da reperire: in Italia anche il racconto di storia va a senso unico (basti vedere alcune trasmissioni televisive, alcuni saggi o i dettati sui quotidiani dei cosiddetti “maestri del pensiero”), a riprova che abbiamo paura di affrontare serenamente il nostro passato, qualunque esso sia stato.
Truman, cioè l’amicizia
Sono davvero pochi i film che riescono a parlare di amicizia virile in modo serio e sobrio, e nello stesso tempo commovente. Il lavoro di Cesc Gay, meritato premio Goya, oltre a fornire un’immagine del livello del cinema spagnolo, offre un ritratto credibile di una vicenda umana, tutt’altro che scontata e facile da raccontare.
Juliàn (Ricardo Darin) è un attore argentino da lungo tempo a Madrid, Tomàs (Javier Càmara) è un madrileno docente all’università in Canada, sposato con figli. Due tipi umani diversi: il primo estroso, seduttore, separato con un figlio, il cane Truman; il secondo, posato, metodico, preciso. Sono amici da una vita, fedeli al loro rapporto pur nella lontananza.
Un giorno Tomàs si presenta a casa di Juliàn: sa che l’amico è malato. Ha solo 4 giorni di tempo, ma in quei giorni si recupera l’intensità di una vita. I due si incontrano, cercando di comprendersi, Tomàs sa ascoltare, Juliàn è estroverso. Il mondo dell’attore gli si sbriciola intorno, appena viene conosciuta la sua malattia, restano i rapporti veri – scarsi –, le richieste di perdono, il viaggio ad Amsterdam – follia di un solo giorno – per abbracciare il figlio studente che qui vive, in un rapporto di timida tenerezza maschile, di dolore che si conosce e non si riesce ad esprimere se non con il silenzio degli occhi e dei gesti.
Per Tomàs la scoperta di chi sia davvero l’amico, di quanta delicatezza abbia nell’animo pur nella rudezza del tratto, e della sua volontà ferrea di non arrendersi al male. Un film sull’amicizia, la nostalgia del tempo passato, il coraggio del presente, di parlare di malattia e di morte. Ma il tono è così trattenuto, con tocchi umoristici, che la pietas dell’argomento si alleggerisce e non scivola nel mèlo, anzi dice, grazie alla forte recitazione dei due e ad uno stile asciutto senza essere aspro, il coraggio di aiutarsi senza far nulla pesare, e di essere fedeli sino alla fine all’amicizia. Da non perdere.
Codice 999
Gli Usa non demordono dai polizieschi adrenalinici. Ed ecco il film di John Hillcoat con Casey Affleck, fratello del premio Oscar Ben, giovane poliziotto sposato che si trova entro un gruppo di colleghi corrotto nel giro della mafia russa, ma, questa volta, ebrea. Clima arroventato da trhiller, sangue e morti, corse pazzesche, fotografia scura e allucinata con ritratti dei personaggi più bozzettistici che profondi, secondo i cliché del genere per un lavoro di sicuro impatto commerciale e di fattura professionale in salsa americana. Per chi ama il genere del divertimento sanguinolento senza troppe pretese.
Ancora in sala: Le confessioni (di cui già abbiamo parlato, vedi qui), e il fantasioso Grotto in 3 D.