Hiroshige, la voce della natura
A Roma la prima rassegna italiana sul maestro giappo-nese del paesaggio. L'hanno ammirato Degas, Monet, van Gogh.
Entrare nel mondo di Utagawa Hiroshige (1797-1858) è inoltrarsi man mano in quel mistero, aperto e infinito, che è la natura. Nelle centinaia di stampe che egli ha prodotto essa è il soggetto preferenziale. Non che manchino scene di gruppo, di guerrieri o di vita cittadina, ma occorre dire che il paesaggio è per questo maestro oggetto di un amore si direbbe esclusivo.
Il vedutismo di Hiroshige nasce dall’esigenza tipica di ogni pittore della natura: la contemplazione. Così, mentre in Italia sono i veneziani a dipingere, reinventandola, la loro città di luce e di colore o gli inglesi con Constable e Turner guardano i loro paesaggi agresti o montani, ora con distacco ora con passione, in Giappone Hiroshige osserva la vita che lo circonda, e la trasfigura. Infatti, se è vero che alberi e prati, monti ed acque, animali e fiori sono riprodotti così come l’occhio li può vedere, il sentimento che c’è sotto, o meglio l’anima che vibra dietro, li rende trasparenti come le autentiche opere di poesia. Prendiamo le nevicate. Verso il 1834 Hiroshige contempla La neve di sera a Hira: le montagne “salgono” tra valloni scoscesi o appena ammorbiditi dal pennello appuntito; sotto, un lago di azzurro pallido vede ombre di imbarcazioni, minuscole come i gruppi umani indistinti. Hiroshige rende l’atmosfera della nevicata appena scesa, con quel rumore basso che crea un’aria sospesa, e quel chiarore particolare che invade la natura verso la notte. Il pittore è capace di contemplarla, la neve, mentre fiocca sulle persone che camminano sopra i ponti, tra il fiume che scorre – sempre azzurro fondo – e le sagome degli alberi che si vedono – e si “sentono” – appesantiti. Il disegno è sottile, precisa a tratti fini il cielo grigio, il biancore della neve: Hiroshige ci fa “provare” l’inverno: ma non il freddo, bensì la sua magia.
È la stessa sensazione che si avverte quando egli tratta la vita della natura, o meglio i fenomeni di essa che sembrano commentati dallo scorrere delle ore e dalle variazioni della luce. Il ciliegio fiorito e la luna piena è una visione metafisica: sul plenilunio fulgente si staglia l’albero “rivisitato” nei larghi petali dei fiori, a colori chiari: vivo come una persona. Inutile nasconderlo, Hiroshige ha un’anima romantica, se per romanticismo si intende non solo una determinata epoca ma un atteggiamento spirituale, d’amore per le cose e le persone. Così La luna e le oche selvatiche, volanti nel cielo con la sagoma allungata, paiono esplorare l’infinito. È questa infatti l’emozione che Hiroshige ci dà, se osserviamo con lentezza le sue opere. Esse sembrano un inno d’amore alla creazione. Le lepri sotto la luna, descritte in punta di pennello, sono quasi un colloquio estatico, istintivamente, degli animali alla notte tutta chiara, senza altro colore; come pure i Fiori di iris a Horikiri. Tratti dalle cento Vedute di luoghi celebri di Edo (1857), essi, ritti sul lungo stelo, i petali carnosi alti sull’orizzonte dell’ultimo sole, sono un ritratto appassionato della bellezza forte della natura. Osservandoli, non si può non pensare agli Iris di van Gogh – che conosceva le stampe di Hiroshige –, così eccessivi tuttavia nella loro esuberanza. Come si ricordano i ponti di Monet nel suo giardino, luminescenti e quasi evaporati, guardando le stampe (1849) di Hodogaya, con l’arco “gentile” di legno tra le due sponde del fiume immerse nel verde, e quell’acqua – ora blu ora bianca – intrise di luce.
Questo è Hiroshige, che si immerge poi pure in Kyoto, nella vita cittadina, ma ama soprattutto il Fuji alto e innevato, gli uccelli tra gli alberi o i canneti in primavera: le stagioni, in definitiva, della natura e dell’uomo. Un grande poeta romantico è questo artista, imitato in patria e in Europa, anche quando apparve la fotografia che sfruttò subito le sue stampe poetiche.
Ci si sente molto bene, dopo aver visto una rassegna come questa, o meglio, avere incontrato una persona del genere. È della razza, che oggi forse si vorrebbe estinta (perché scomoda), dei poeti. Gli autentici visionari dello spirito. Essi ricordano ciò che non muore.