Hilde e Andrea
Specchio dell’anima Avevo 25 anni, mi piacevano tante cose: la musica, leggere un buon libro, mangiare la pizza, smontare qualsiasi apparecchio che finisse nelle mie mani, conoscere il mondo e, soprattutto, la gente che ci abita. Di passaggio per l’Austria conobbi Hilde, una ragazza di 19 anni, molto affabile e piena di vita, e con un vantaggio rispetto ad altri abitanti di questo bellissimo paese: conosceva l’italiano, una lingua che più o meno anch’io parlo (la mia conoscenza del tedesco si limita a buon giorno, buona sera, buona notte, tante grazie). Nei miei due o tre giorni di soggiorno nella sua città, avemmo occasione di chiacchierare, cantare tra gente conosciuta, diventare amici. In lei mi colpiva soprattutto lo sguardo dotato di un magnetismo al quale era difficile sottrarsi: era come se attraverso gli occhi si potesse intravedere senza alcun velo la profondità del suo essere… Da qualche parte è scritto che gli occhi sono lo specchio dell’anima… Pensandoci bene, chi ha scritto questa frase senz’altro aveva il bell’ardire di guardare la gente direttamente negli occhi. In diverse occasioni ho potuto constatare anch’io che è vero e che lo sguardo di una persona non ha età né luogo di origine. Non è un numero di documento ma comunque ha stampato in sé la storia passata e presente, le gioie, gli aneliti e sofferenze, l’impossibilità di mentire… Per lo sguardo di una persona non esiste chirurgia estetica che tenga; la vocazione a specchio dell’anima è perenne. Uno sguardo spento mostra un’anima opaca, senza ideali né utopie, schiava delle apparenze… Oggi ho 47 anni, abito in Europa e i miei gusti non hanno sofferto grandi varianti, forse sono diventati un po’ piú raffinati ma non tanto. Continuo ad amare la musica, i libri, la pizza e la gente. Gli apparecchi sono diventati troppo complicati per sbudellarli senza riguardo alcuno. Mi trovo seduto in mezzo ad una sala piena di gente che va e viene; fuori, al di là dei vetri, il cielo sembra lì lì per dispensare una spolverata di neve ma non si decide del tutto. Una signora sconosciuta viene verso di me portando per mano una ragazzina di circa dieci anni: è graziosa, sembra un angioletto scappato da un quadro di Botticelli. Entrambe si fermano, poi la donna mi chiama per nome. L’osservo bene in volto e non riesco ad evitare i suoi occhi; allora mi alzo in piedi, ci diamo un abbraccio e le dico: Hilde, quanto tempo!. Intanto l’angelo di Botticelli (che si chiama Leni ed è la piú piccola dei suoi tre figli) ci contempla con quello sguardo incantato che solo i bambini possiedono di fabbrica. È accaduto in treno Intercity Firenze-Roma. Pietro ed io ci saltiamo su parlando già dei tre giorni di ferie che ci aspettano prossimamente. Intanto, mentre sto sistemando le borse nel portabagagli, nel corridoio dietro di me passa un ragazzone con uno zaino bianco che brontola a voce alta, visibilmente arrabbiato. Al momento della partenza delle grida e un certo trambusto ci distolgono dai nostri progetti e dépliant. Sembra che qualcuno sia andato a finire sotto una carrozza… Per fortuna, dopo qualche istante veniamo a sapere che non è successo niente di troppo grave: si tratta soltanto di quel ragazzo che quando il treno stava partendo si è buttato giù e non vuole risalire. Tutti ci incolliamo ai finestrini e a quel punto ci accorgiamo che il ragazzo è un minorato mentale. Dal treno la mamma e la sorella lo chiamano, ma lui non vuole saperne di andare a Roma. Dopo dieci minuti buoni di trattative il capostazione e i controllori del treno riescono a farlo risalire con la promessa che gli faranno visitare il locomotore. Alla fine il treno parte con Andrea (così si chiama). La mamma, la sorella e uno dei controllori gli si siedono accanto in uno scompartimento, cercando di farlo stare buono: impresa non facile giacché Andrea ogni tanto esce dalla gabbia e gironzola per tutta la carrozza, lamentandosi della sua situazione di prigioniero delle ferrovie. Nel vagone ci sono sì e no una decina di persone. All’inizio ci comportiamo tutti con un po’ di circospezione, anche perché Andrea è un ragazzone di una trentina d’anni e per giunta parecchio incavolato, per cui nessuno si azzarda a dire niente quando lui, passando per il corridoio, afferra una borsa qualsiasi e se la porta via per lasciarla poi su un altro sedile. La mamma e la sorella si mostrano più che mortificate, non sapendo bene come gestire la situazione. Dopo un po’ Andrea entra in uno scompartimento diverso dal suo, invitato da una giovane coppia che si mette a dialogare con lui; nel frattempo la mamma coglie l’occasione per rendere ai viaggiatori le loro borse, cercando di scusare il comportamento del figlio. Poco dopo arriva il capotreno con l’annuncio che il treno sta per fermare a Orvieto: attenti, quindi, ad evitare una nuova fuga di Andrea. Ed è allora che gli altri viaggiatori cercano un pretesto per accaparrare l’attenzione del possibile fuggiasco, invitandolo a sedersi accanto, interessandosi di lui, parlando di calcio, di auto… Il treno riparte. Ormai Andrea è stato accettato da tutti, come se ogni passeggero volesse regalare un po’ di riposo alla mamma e alla sorella. L’unico verso cui il giovane sembra provare soggezione è il signor Domenico, il capotreno, forse perché indossa un’uniforme (alla fine riceverà in regalo da lui un libro con tutta la segnaletica ferroviaria). Ora nella carrozza si respira un’ aria più distesa, i passeggeri parlano fra di loro commentando la situazione: è come se tutti si sentissero responsabili della tranquillità di Andrea. Quando il treno arriva alla stazione Termini, Andrea, sua madre, la sorella, il signor Domenico e tutti quanti noi ci dileguiamo nella folla. Le possibilità di ritrovarci sono remote. Eppure sento di ringraziare Andrea: senza rendersene conto, per tre ore ci ha tolto dal nostro mondo per introdurci nel suo; ci ha ricordato che in fondo siamo tutti della stessa famiglia e, perché no?, in una carrozza delle ferrovie ci ha fatto sperimentare quella gioia serena che viene del dare senza aspettarsi nulla in cambio.