Herbert Herrity e il vero “successo” nella missione
Herbert Herrity (1928-2000), dei Missionari d’Africa (Padri Bianchi), nasce a Glasgow, Scozia, in una famiglia cattolica di operai, durante la storica crisi economica. Nel Regno Unito ci furono molti disoccupati che ricevettero pochissimi aiuti e la classe operaia fu quella più colpita.
Herbert era un uomo intelligente e pensieroso, spiritualmente un gigante, che suscitava sentimenti contrastanti, vivendo un po’ “fuori degli schemi” e con una grande passione per i poveri. C’era chi lo apprezzava moltissimo e chi non lo comprendeva affatto. Queste incomprensioni furono per lui una profonda sofferenza.
Ci conoscevamo molto bene: per me Herbert era un vero fratello, che sentivo più vicino della mia stessa famiglia e che mi fu di grande aiuto nel vivere la spiritualità dell’unità. Parlavamo di tutto, ma soprattutto ci siamo sforzati di generare la presenza di Gesù in mezzo a noi. Tanti lo ricordano ancora, specialmente in Scozia e in Ghana. In particolare lo ricordano i religiosi legati al Movimento dei Focolari nel Regno Unito e in Irlanda.
Appena finita la seconda guerra mondiale, Herbert entrò nel noviziato internazionale dei Padri Bianchi nel sud della Scozia. Fu per lui un’esperienza molto positiva, perché si trovò in una comunità dove convivevano persone che fino a pochi mesi prima si erano considerate nemiche: scozzesi, inglesi, francesi, tedeschi.
Un insuccesso provvidenziale
Terminata la formazione, Herbert passò la maggior parte della sua vita missionaria in Ghana. In un suo scritto degli anni ‘60 racconta che cosa significhi per lui essere missionario: “Sono fortemente convinto che c’è solo una vocazione uguale per tutti: essere Gesù. Lui era l’immagine del Padre: ‘Filippo, perché mi chiedi di mostrarti il Padre. Non sai che io ed il Padre siamo una cosa sola? Chi vede me vede il Padre’. Gesù è l’amore visibile di Dio, perché Dio è Amore; e questa è la vocazione per ciascun discepolo di Gesù. Se ci dedichiamo a questo in Africa saremo i missionari dell’amore di Dio per l’Africa, come Gesù è il Missionario dell’amore di Dio per l’umanità”.
Questa visione, però, non fu il suo punto di partenza: “Quando arrivai in Ghana per la prima volta, pensai che eravamo venuti qui per instaurare la Chiesa. Volevo che le persone si convertissero, per condividere con me la mia fede nel Dio di Gesù. Volevo al più presto possibile vedere tra i popoli del Gomja e Dagomba non solo persone convertite, ma tanti catechisti, preti, religiosi e religiose. Sognavo una Chiesa ben avviata, e la volevo realizzare subito.
In quei giorni avevo letto di p. McDoland, un missionario nell’Oriente. Avevo conosciuto questo missionario quando ero ancora giovane e lui un vecchio ammalato. Per me lui era un’ispirazione, e volevo emulare il suo impegno missionario e i successi che aveva ottenuto. Se occorrevano tanto lavoro, sofferenze e malattie per questo fine, io, nel mio entusiasmo giovanile, mi sentivo pronto a pagare quel prezzo. Consideravo il martirio come un ideale. La mia generazione era sopravvissuta alla grande depressione e agli anni della guerra, per cui le difficoltà non ci spaventavano.
Però la mia esperienza in Damongo fu molto diversa da quella di p. McDonald in Cina. Non ci furono grandi conversioni tra i Gonja, e, per essere sincero, non vedevo nessun segnale che questo sarebbe avvenuto nel futuro. In quella situazione, dove non si vede alcun segno di progresso, lo scoraggiamento può avere conseguenze disastrose”.
Herbert infatti passò attraverso un periodo di prova, sentendo sulla sua pelle il giudizio negativo sui missionari che, non sempre a torto, venivano associati al colonialismo. Era il periodo nel quale molti Stati africani ottenevano l’indipendenza e nel quale si celebrava il Concilio Vaticano II.
Se da una parte Herbert accoglieva con entusiasmo le nuove idee e l’aggiornamento che la Chiesa si proponeva, dall’altra, come missionario, capiva che il Concilio metteva in crisi lo stile della missione finalizzata alla “conversione” delle persone. I missionari venivano accusati di aver fatto più danno che bene, perché non avevano rispettato la cultura dei popoli dove erano stati inviati, ma avevano invece imposto a loro le idee dell’Europa.
L’esperienza dell’insuccesso, però, prepara Herbert ad una visione completamente nuova che sarà il frutto dell’incontro con la spiritualità dell’unità: l’amore vale molto di più di qualsiasi successo. Comprendendo che il “farsi uno” con l’altro è più importante della ricerca delle soluzioni alle difficoltà, Herbert ritrova la gioia nel suo cuore.
La missione è amore
Nei primi anni ’70, per approfondire la vita di comunione, trascorre un periodo in un centro di spiritualità sacerdotale del Movimento dei Focolari, a Frascati con Toni Weber. Herbert scrive: “Rischiavo di diventare un prete anziano pieno di amarezze e scoraggiamenti se non avessi avuto la fortuna di incontrare degli amici che mi hanno fatto capire che nella vita c‘è una sola cosa da fare: amare con lo stesso amore di Dio. Non si trattava di fare chissà che cosa. Non esistevano altri progetti. Forse tutto questo può sembrare semplicistico, irreale o magari assurdo. Sicuramente non riflette la mentalità moderna che dà molta importanza al successo. Il ‘successo’, però, come tutti noi sappiamo, non è essenziale. Anch’io lo pensavo, ma era solo una teoria. Un missionario vero che pregava e si dava da fare doveva aver ‘successo’. Solo dopo, pensando a Gesù, mi sono reso conto che anche lui, di ‘successo’ ne ha avuto poco. Era un fallito. Adesso sono convinto che il mondo ha bisogno del mio amore e non della mia sapienza. E non accetta che quello. Noi missionari abbiamo solo una cosa da offrire al mondo: Gesù Cristo che è l’Amore incarnato. La nostra giornata ha valore se ci mettiamo l’amore”.
Un sogno che si avvera
Durante il suo funerale, tenuto in Ghana il 29 maggio 2000, il dott. David Adulai, un medico ghanese che, fidandosi solo della Provvidenza, aveva lasciato la carriera per dedicarsi ai poveri, testimoniò che il primo ad incoraggiarlo in questa avventura era stato proprio Herbert, il quale sentiva come “sua” la clinica “Shekinah” che David ha costruito a Tamale (Ghana).
Il dott. David ha detto: “Ho conosciuto p. Herbert Herrity negli anni sessanta quando, come un povero giovane, andavo alla Missione Cattolica di Tamale per un po’ di cibo, per sopravvivere. Grazie a Dio e alla generosità di tante persone ho ricevuto un’educazione, e poi, con mia moglie Doris, sono tornato ad aiutare la mia gente come medico.
Nel 1988 ho deciso di dedicarmi completamente ai poveri. Tanti mi hanno preso per pazzo. Durante il periodo di discernimento mi sono avvicinato a p. Herbert. Siccome venivo da un’altra parrocchia, non lo conoscevo bene. Un suo parrocchiano mi aveva detto: ‘è un uomo di preghiera’.
Quel giorno, 5 novembre 1988, dopo avermi ascoltato, mi disse: ‘È come ascoltare il mio cuore. Il tuo sogno è stato sempre il mio, da quando sono prete e missionario. Dunque, cominciamo subito’. Mi diede tutti i soldi che aveva e questa fu la prima donazione formale per la realizzazione del nostro sogno comune di amare e servire i poveri. Così iniziò un rapporto che è diventato sempre più stretto, in cui lui era il ‘padre’ ed io il ‘figlio’.
Con il suo incoraggiamento mi sono dimesso dal servizio pubblico e mi sono abbandonato completamente alla Provvidenza di Dio. Era una prova di fede, fede nella Provvidenza divina per poter donare a tanti poveri l’amore gratuito e incondizionato di Dio. Da quel giorno sono passati più di dieci anni, e tutto quello che p. Herbert ci aveva detto si è avverato. La nostra opera va oltre l’assistenza medica. Adesso gestiamo una casa per adulti abbandonati o senza nessuno che li cura. Portiamo cibo a tante persone che vivono per strada. Andiamo regolarmente nelle prigioni per donare sapone, vestiti e assistenza sanitaria ai detenuti. Abbiamo anche appena cominciato a provvedere il cibo ai bambini dell’orfanotrofio di Timele.
Per ragioni di salute p. Herbert ha dovuto lasciare il Ghana nel settembre del 1991. Ma le distanze non ci hanno impedito di tenere i contatti con lettere, bobine e con il telefono. Parlavamo spesso su come fare bene la volontà di Dio, vivendo la nostra vita con amore e in unità. Per noi, la nostra felicità e la nostra realizzazione stava nel fare la volontà di Dio, anche se a volte, non eravamo capiti da quelli che ci stavano attorno. Il legame d’amore tra di noi cresceva sempre di più in Dio e mi sentivo come un figlio di p. Herbert. Mi conosceva molto bene, con tutti i miei limiti e i miei peccati, e mi ha accettato con un amore totale e incondizionato. Attraverso di lui ho sperimentato l’amore gratuito e incondizionato di Dio e per questo adesso lo posso donare ai poveri.
Cinque giorni prima di andare in ospedale mi ha telefonato e abbiamo parlato della nostra vita insieme e come abbiamo cercato di amare Dio e il prossimo. Ha parlato della gioia che gli davano gli episodi di amore e di unità nei quali era stato coinvolto. Alla fine della nostra conversazione mi disse. ‘David, sono pronto a morire’. Con la sua partenza mia moglie ed io (e penso a molto altri sia in Ghana che altrove) abbiamo perso un padre, uno che sapeva ascoltare e dare conforto: un vero amico con cui potevamo essere noi stessi. Siamo certi che ora egli è con quel Dio che ha cercato sempre di amare, obbedire e servire durante la sua vita”.