Helena Maleno, mamma Africa

Helena Maleno, giornalista spagnola e fondatrice dell’associazione "Caminando Fronteras", ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali per il suo impegno umanitario in difesa dei migranti lungo il confine sud-occidentale europeo.

Helena Maleno vive da anni in Marocco. Nel suo ultimo libro, “Mujer de Frontera”, racconta le persecuzioni che lei stessa ha sofferto per il suo impegno umanitario.

Il Covid-19 monopolizza tutto, ma cosa succede alla frontiera?

La violazione dei diritti che già esisteva si è aggravata. Questa situazione colpisce più fortemente le persone vulnerabili, in una situazione di assenza di diritti di confine.

Quale è stata l’ultima richiesta di aiuto che ha ricevuto?

Proprio adesso, da un parente di sette persone che questa notte si sono imbarcate nello stretto [di Gibilterra]. Stiamo cercando di verificare se siano stati aiutati dalla Guardia Costiera (Salvamento Marìtimo) e portati a Ceuta, o se dobbiamo continuare a cercarli.

 Sono situazioni veramente estreme. Chi sono i dimenticati del XXI secolo?

Sono corpi che soffrono e muoiono e di loro si fa commercio nel XXI secolo. È la “necropolitica”: sono interi gruppi quelli che la subiscono.

Helena Maleno libroE le donne, sono le meno protette…

Sì, la sofferenza e lo sfruttamento dei corpi di queste donne è un valore aggiunto per le industrie criminali, come pure il controllo delle frontiere.

 Lei ha vissuto un calvario tutto suo. Nel 2012 è iniziata una causa giudiziaria contro di lei…

Una denuncia promossa dalla polizia spagnola ed europea per il controllo delle frontiere, che poi è stata trasmessa alla Giustizia del Marocco, il Paese dove ho la residenza. La denuncia non mette però l’accento sul mio impegno di donna che difende i diritti umani.

Cosa diceva quel rapporto?

Iniziava con un elenco dei miei presunti rapporti sentimentali e sessuali, anche con una donna. Mi dipingeva come prostituta e lesbica e poi mi definiva una «trafficante», perché chiamavo il Salvamento Marìtimo quando le persone annegavano in mare; si chiedeva infine al governo marocchino di condannarmi all’ergastolo.

Il caso adesso si è concluso [con un’assoluzione]. Che cosa ha significato per lei?

La criminalizzazione non finisce mai, questo lo sanno tante donne che difendono i diritti umani in Guatemala, in Kenya… Ora l’ho imparato anch’io. La mia vita e quella della mia famiglia non sarà più come prima. Vivo con una rete di protezione.

I migranti dicono che «la vita è una lotta» e, nel suo caso, per salvare vite…

In questo momento la difesa della vita è qualcosa di rivoluzionario, di fronte a compagnie che saccheggiano le risorse naturali, che espellono le persone dal loro territorio, che fanno affari con il controllo dei loro spostamenti e perfino con la morte di queste persone… Questa difesa è una rivoluzione, e io sono una tra le migliaia di donne che combattono contro queste situazioni.

Nel suo libro Mujer de Frontera parla di un dolore che risana…

Ė un dolore che genera resistenza, che ci unisce alle lotte delle nostre antenate, che ci trafigge ma ci rende più sagge, forti e combattive.

Nonostante tutto lei continua a essere «Mama Àfrica» e il suo telefono continua a squillare.

Quando le persone attraversano una frontiera sanno di poter morire e lasciano il loro numero di telefono ad un parente o ad una comunità di aiuto. Sono fiera che il mio numero sia una di quelle possibilità.

Non sono numeri, sono persone…

Persone con una storia, con dolori, progetti, speranze… Sono persone che ci mostrano cos’è la necropolitica, e persone che lottano per la vita nella trincea della frontiera.

L’intervista originale di Ana Moreno Marin a Helena Maleno Garzón apparirà sul numero di novembre del periodico mensile in lingua spagnola Ciudad Nueva (www.ciudadnueva.es), Madrid. Traduzione italiana a cura di Javier Rubio.

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