Harvard dice no a Trump

La più ricca e famosa università degli Usa ha annunciato che non cederà alle richieste del presidente di limitare la propria autonomia, rinunciando così a 9 miliardi di dollari di finanziamenti. Una mossa che sta spingendo altri a fare altrettanto
L'ingresso della Harry Elkins Widener Library nel campus della Harvard University. Foto EPA/CJ GUNTHER

Si può dire che, alla fin fine, entrambe le parti abbiano mantenuto fede alla parola data: Trump a quella di tagliare i 9 miliardi di dollari di fondi federali e 60 milioni di dollari in contratti pluriennali alla celeberrima università di Harvard, “rea” di tollerare l’antisemitismo e mettere in atto una serie di politiche “woke“; e Harvard a quella di non cedere alle richieste, vedendo immediatamente congelati 2,2 di questi miliardi.

La notizia è della sera del 14 aprile, con uno sferzante comunicato sulla Harvard Gazette, l’organo di stampa dell’ateneo; in cui il rettore, Alan Garber, afferma di aver respinto le richieste di Trump in quanto «vanno oltre l’autorità del governo e ledono l’indipendenza dell’Università e i suoi diritti costituzionali, [a cui] l’università non rinuncerà […]. Nessun governo, indipendentemente da quale parte politica sia al potere, dovrebbe imporre che cosa le università private possono insegnare, chi possono ammettere ed assumere, e quali aree di studio e ricerca possono perseguire». Il comunicato ricorda poi che le richieste dell’amministrazione Trump includevano la supervisione dei programmi di studio e delle attività di ricerca, delle ammissioni e delle assunzioni, l’eliminazione dei programmi per l’equità, la diversità e l’inclusione, e la limitazione delle attività di docenti e studenti impegnati nell’attivismo.

Va detto che Harvard è per l’appunto un’università privata, e che non dipende dunque in maniera determinante dai finanziamenti pubblici – tuttavia riconosciuti fin dal dopoguerra a diversi atenei a titolo di sostegno ad attività di ricerca di interesse pubblico: questi 9 miliardi di dollari, sui 53 di patrimonio dichiarato dell’ateneo, non ne decreteranno quindi la chiusura. Né impatteranno sulle (già costosissime, fino a 80.000 dollari l’anno) rette: Harvard ha infatti confermato di aver esteso fino a 100.000 dollari di reddito familiare l’esenzione da tasse universitarie, vitto e alloggio, e fino a 200.000 quella per le tasse universitarie. Né, si può ipotizzare, una simile vicenda alienerà voti a Trump: secondo le ultime statistiche rilasciate dall’ateneo, meno di un terzo degli studenti proviene dal Sud, dal Centro e dal Midwest, le zone dove è geograficamente più forte il consenso all’attuale presidente. Però si tratta di una mossa dal grande valore simbolico, che ha anche guadagnato il plauso pubblico dell’ex presidente Obama.

Sono infatti una sessantina gli atenei (pubblici e privati) presi di mira in maniera analoga dall’amministrazione Trump, prospettando un taglio dei fondi innanzitutto con l’antisemitismo che sarebbe stato tollerato nei campus; ma anche con motivazioni, dicono i rettori che hanno ricevuto le missive, non sempre chiaramente circostanziate. Tanto è vero che anche università come la Brown, che avevano inizialmente accolto alcune delle richieste, sono state poi ugualmente minacciate di un colpo di scure. Ha fatto molto rumore il fatto che la rettrice della Columbia University, quella maggiormente presa di mira a causa delle proteste pro Hamas dopo l’inizio della guerra a Gaza, abbia ceduto alle richieste dell’amministrazione Trump e si sia dimessa subito dopo; senza tuttavia aver ancora visto “scongelare” i finanziamenti, e avendo anzi visto ancor maggiore intransigenza nelle richieste avanzate. Il che ha fatto chiedere a diversi editorialisti, da quelli dell’Atlantic a quelli del New York Times, perché mai a questo punto gli altri atenei dovrebbero fare altrettanto.

In prima battuta le reazioni degli atenei non sono state compatte. Anche perché, si potrebbe obiettare, facile per l’Università più ricca e famosa d’America dare il benservito a Trump; un po’ meno per chi, atenei pubblici in particolare, dipende in misura maggiore da questi finanziamenti. C’è stato chi, come l’Università di Berkeley, ha generalmente affermato con un video del rettore Rich Lyons che l’ateneo manterrà sempre fede ai suoi valori, e si impegna a tutelare le persone che potrebbero essere colpite dai cambiamenti nelle politiche; chi, come Princeton, ha confermato la sospensione dei fondi (e quindi non si è, almeno per ora, adeguato alle richieste), ma non ha preso pubblicamente posizione; chi ancora, come Yale, ha dichiarato il suo pubblico sostegno ad un’azione legale contro i tagli, pur non essendone formalmente parte. L’Associazione delle università americane, che ne riunisce una settantina, ha anch’essa avviato un’azione legale analoga, per quanto con scarsa eco. Ma la mossa di Harvard promette di dare una spinta non indifferente nel “metterci la faccia”.

Appena 12 ore dopo è infatti arrivato il messaggio della presidente pro tempore della Columbia, Claire Shipman, che fa sostanzialmente marcia indietro: afferma infatti di aver letto «con grande interesse» le parole del suo collega di Harvard Alan Garber, e aggiunge che l’università di New York «respingerà un’ingerenza pesante da parte del governo che potrebbe danneggiare la nostra istituzione e minare riforme utili», nonché imporre «cosa insegniamo, cosa ricerchiamo o chi assumiamo». Va detto peraltro che la Columbia aveva subìto un danno d’immagine non irrilevante dall’iniziale cedimento alle richieste di Trump, in un contesto in cui la reputazione di un’ateneo è vitale: anche in questo contesto va quindi intesa la volontà di riaprire la partita. Poche ore dopo anche la Cornell University ha annunciato di aver avviato una causa legale contro il congelamento di un miliardo di dollari di fondi alla ricerca.

Va ricordato infatti che il denaro federale viene utilizzato dalle università prevalentemente per progetti di ricerca, per cui i tagli impatteranno soprattutto su questi: e già da qualche tempo il mondo della medicina a livello internazionale ha lanciato l’allarme in questo senso, tramite riviste di prestigio come il British Medical Journal e Lancet, perché il rallentamento dei progressi nel campo della ricerca medica si farebbe sentire a livello globale. Proprio la facoltà di medicina di Harvard è una delle più colpite, tanto che il suo preside, George Daley, è intervenuto nello stesso comunicato del rettore: «Se guardiamo ai 70 anni di collaborazione, il ritorno sugli investimenti è stato brillante (2,35 dollari per ogni dollaro investito, secondo stime citate dal New York Times, ndr). Il fatto che abbiamo Harvard, il MIT e tutti questi straordinari ospedali è stato un magnete per gli investimenti […] Pare proprio un’autogol e un insulto all’economia e alla leadership statunitense nelle biotecnologie e nella farmaceutica [che] minaccia la nostra competitività verso Paesi come la Cina, che stanno investendo molto, molto pesantemente nel biomedicale». Una presa di posizione analoga era peraltro già arrivata anche da Yale.

La partita, insomma, è ancora apertissima, e si prepara ad essere giocata nelle aule di tribunale a suon di ricorsi; aggiungendo un altro tassello al tema della fuga dei ricercatori dagli Usa e a quella degli studenti internazionali, che arrivano a costituire anche un quarto degli iscritti in alcuni atenei, prospettando serie difficoltà di finanziamento degli stessi.

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