Harris o Vance? La presenza indiana alla Casa Bianca

Kamala Harris, la probabile candidata democratica alla presidenza degli Usa, è figlia di due accademici immigrati negli Usa: padre giamaicano (afroamericano) e madre indiana. Usha Vance, moglie di James David Vance, candidato repubblicano alla vicepresidenza Usa accanto a Donald Trump, è anch’essa figlia di accademici immigrati, entrambi provenienti dal sud India. E la presenza indiana alla Casa Bianca sembra destinata a continuare.
La vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris a Washington, DC, 25 luglio 2024. Foto: EPA/KENNY HOLSTON / POOL via Ansa

Fra gli sconvolgimenti che hanno caratterizzato gli ultimi dieci giorni della campagna elettorale americana è necessario prendere in considerazione un fattore che, senza dubbio, avrà sempre più un peso determinante nel futuro degli Stati Uniti. Kamala Harris non è la prima donna a correre per la Casa Bianca. Hilary Clinton l’ha preceduta. Ma la Harris è la prima donna di colore e, soprattutto, non delle tradizionali discendenze dei candidati che hanno caratterizzato la corsa alla presidenza fino ad ora: irlandese, scozzese, inglese e, più recentemente, latinos o di diversi altri mix a cui si era abituati.

La Harris, figlia di due accademici immigrati negli USA è afroamericana e anche indiana, aspetti tutt’altro che trascurabili. Se il primo, infatti, ha avuto in Barack Obama un rappresentante capace di arrivare alla Casa Bianca e per due mandati, la candidata indicata da Biden con il suo ritiro dalla competizione elettorale rappresenta la prima donna di origine indiana a poter diventare il primo cittadino (la prima cittadina) degli Usa.

L’aspetto rappresenta una novità, ma anche un trend che ha precedenti recenti altrove. Già il Regno Unito ha sperimentato fino a qualche settimana fa la presenza di un Primo Ministro di origine indiana e il sindaco della sua capitale è di radici pakistane. Ora i migranti del subcontinente indiano si presentano – grazie alla cinquantanovenne Kamala – alla corsa per la poltrona probabilmente più ambita al mondo, quella di presidente degli Stati Uniti. Impensabile, assolutamente chimerico, fino a qualche anno fa. Eppure, non è un’eccezione neppure negli Usa.

La madre di Kamala Harris è immigrata negli Usa dal Tamil Nadu negli anni Sessanta: Kamala sta completando un mandato da vice-Presidente degli Usa, anche se molti la ritengono una figura di secondo piano. Resta da vedere ora che ha il palcoscenico tutto per lei come si esprimerà. E non è sola. Non dobbiamo dimenticare che JD Vance, il candidato vice-Presidente di Trump, ha una moglie indiana, Usha, con genitori originari del sud India, dallo stato dell’Andra Pradesh. Insomma, è molto probabile che americani con origini indiane possano diventare presenze stabili alla Casa Bianca. Senz’altro fra qualche mese, comunque vadano le cose, la presenza di retaggi indiani continuerà o con Kamala presidente, o con Usha consorte del vice-Presidente.

J.D. Vance, senatore dell’Ohio e candidato repubblicano alla vicepresidenza, e sua moglie Usha Vance a un comizio elettorale alla Middletown High School, Ohio, USA, 22 luglio 2024. Foto: EPA/DAVID MAXWELL via Ansa

Resta il fatto che la comunità indiana – o di origine del sub-continente – negli Stati Uniti ha una rilevanza sempre più importante sia come numero che come influenza socio-politica e culturale. Nell’attuale Congresso ci sono cinque membri di origine indiana, e due erano i candidati nelle fasi iniziali della corsa alla presidenza: Nikki Haley e Vivek Ramaswamy. Si tratta della punta dell’iceberg. Qualche anno fa erano quattro milioni e mezzo i cittadini americani che si identificavano come “di origine indiana”. Probabilmente oggi sono cresciuti ed hanno superato anche i cinesi, che erano la comunità asiatica con il maggiore numero di cittadini degli Stati Uniti.

Due sono state le svolte che hanno caratterizzato questa crescita. La prima è avvenuta nel 1965 quando è entrata in vigore una nuova legge sulla migrazione, che eliminava le restrizioni su migranti provenienti da Africa e Asia. La seconda fase è stata la crescita del settore della tecnologia e del software che ha visto sempre più ingegneri e programmatori formati nel sub-continente indiano invadere il mondo americano, a cominciare dalla Sylicon Valley. Ora l’impatto si allarga dal settore tecnologico, del business e dell’informatica per interessare sempre di più anche la vita politica.

Attenzione però: c’è dell’altro, forse inatteso dai più di noi. Infatti, il 60% degli indiani residenti oggi negli Usa, sono arrivati dopo l’inizio dell’attuale millennio e fra questi, in particolare negli ultimi anni, non mancano migranti che poco hanno a che fare con la tecnologia avanzata dell’India e degli Usa. Arrivano come migranti economici – a causa della povertà – o discriminati – perché musulmani – e cercano di penetrare negli Stati Uniti confondendosi con i latinos provenienti dal Messico e da Meso e sud America. Solo nel 2021, circa 725 mila migranti indiani senza documenti si trovavano negli Usa, secondo il centro di ricerca Pew. Quella indiana negli Stati Uniti è, quindi, una diaspora assai diversificata, che in un certo senso ripropone nel continente americano le grandi contraddizioni del sub-continente indiano.

Comunque vadano le cose in questi mesi e qualsiasi responso emerga dalle elezioni di inizio novembre, la vita socio-politica degli Usa dovrà sempre più considerare il ruolo delle comunità asiatiche – e di quella indiana in modo particolare – che sono destinate a essere parte dei meccanismi più profondi della vita americana accanto e, forse oltre, gli irlandesi, gli scozzesi, gli italiani, i polacchi e i latinos.

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