Hariri cede alla piazza
Non è dato sapere quanto l’incidente mattutino di ieri, 29 ottobre, in piazza dei martiri abbia influito sulla decisione del premier Saad Hariri di dare le dimissioni alle 16.03 nelle mani del presidente Michel Aoun che, secondo la legge libanese, non poteva rifiutarle. Un episodio “strano”, quasi che l’esercito fosse scomparso dalla piazza per mezz’ora, proprio quella in cui dei supporter dei partiti sciiti al governo (Amal ed Hezbollah) avevano abbattuto e razziato il campetto di tende drizzato qualche giorno fa nelle aiole attorno al Monumento ai martiri del Libano. Forse un aperitivo di quello che sarebbe potuto succedere nel caso in cui il governo fosse caduto? Un modo, al contrario, per accelerare la sua fine, dando un pretesto ad Hariri per abbandonare il campo, almeno formalmente? Nelle piazze e nei caffè dell’intero Libano se ne è parlato e se ne parlerà ancora a lungo.
Fatto sta che Hariri ha dato le sue dimissioni, nelle mani di un impacciato Generale Aoun. Ma non si sa se lo abbia fatto per poter negoziare da una posizione di forza il suo ritorno o se veramente abbia abbandonato la battaglia, forse memore della disgrazia accorsa a suo padre Rafik, ucciso nel 2005 per le sue coraggiose proposte economiche e politiche. Le prossime ore mostreranno il vero significato dell’atto di dimissioni del premier, che ha dichiarato di «voler rispondere alla volontà di molti libanesi che sono scesi in piazza per chiedere il cambiamento». Molti, in realtà sicuramente più della metà della popolazione, probabilmente i due terzi. L’altro terzo vede al contrario con paura il vacuum che potrebbe crearsi con le dimissioni, a cominciare dai supporter di Nasrallah e degli Hezbollah, che avevano tutto l’interesse a far parte del governo in carica. Hezbollah che, analogamente agli alleati di Amal, legati al presidente del Parlamento Berri, una delle preferite mire dei manifestanti assieme al ministro degli Esteri Bassil, genero del presidente. guarda con preoccupazione all’evolversi delle proteste, visto che sono fortissime anche nei loro bastioni del Sud del Paese, a testimonianza di un “cambiamento” di non poco spessore nella politica libanese: nel mirino dei protestatari ci sono tutti i partiti al governo.
Una protesta che viene da lontano se è vero che questo governo il governo Hariri è in carica solo da gennaio, dopo otto mesi di negoziati tra le innumerevoli componenti della vita politica e religiosa libanese. Ed è per questo che la folla non si fermerà finché non sarà formato – come richiesto sin dall’inizio delle proteste – un nuovo governo di tecnici indipendenti, che rimettano ordine nei conti del Paese e indicano nuove elezioni, soprattutto mettendo fine al saccheggio delle casse dello Stato da parte dei flussi di corruzione che raggiungono tutti i livelli politici del Paese. Corruzione che, accompagnata all’incompetenza di tanti ministri, ha portato alla fase attuale di stallo, con la grave crisi di circolazione del dollaro, scomparso dalla circolazione, o quasi. Dopo quasi due settimane di una rivolta popolare senza precedenti in Libano (oggi è il “Giorno XIV”), i manifestanti hanno ottenuto vittoria per una delle loro principali richieste. Ma la loro rabbia prende di mira più in generale l’intera classe politica, giudicata all’unanimità incompetente e corrotta. Ieri sera in piazza si invocavano anche le dimissioni in blocco dei parlamentari, lautamente pagati, favoriti da bonus incredibili anche per i nostri deputati, e per giunta accusati di essere poco efficienti.
Ora l’incertezza: cosa farà il presidente Aoun, colui che aveva sdoganato gli Hezbollah compiendo una giravolta politica non di poco conto rispetto al suo passato? Cosa faranno i puri e duri di Hezbollah e Amal, che vedono tante defezioni anche nelle loro file, quelle di uomini e donne che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese? Cosa faranno i partiti tradizionali, tramortiti dal “veto” che la folla ha messo su ogni sorta di insegna politica nelle manifestazioni? Reggerà l’economia libanese, o vi sarà un crollo dei “fondamentali”, o addirittura un vero e proprio “default”, cioè il fallimento dei conti del Paese? E cosa faranno i “piloti” esterni della politica libanese, in particolare Usa, Iran e Arabia Saudita? Per il momento la sola reazione viene da Washington che «invita i leader politici libanesi a facilitare con urgenza la creazione di un nuovo governo», come ha dichiarato il segretario di Stato Mike Pompeo in una nota, aggiungendo che «le manifestazioni pacifiche e le dimostrazioni di unità nazionale degli ultimi 13 giorni hanno inviato un messaggio chiaro».