Hama (Siria): andarsene o morire
Hama è un città della Siria centrale, 50 Km a Nord di Homs e 150 Km a Sud di Aleppo. Una città molto antica, citata nell’Antico Testamento e famosa per edifici, opere d’arte e per le antiche norie, le grandi ruote che fin dal IV secolo a.C. sollevavano l’acqua dell’Oronte per irrigare i campi.
Dopo la rivolta anti-Assad (padre), promossa dai Fratelli Musulmani nel 1982 e soffocata a colpi di cannone con qualche decina di migliaia di morti, Hama si era ripresa e nel 2010 era diventata una città di 350.000 abitanti, famosa per la sua produzione tessile di qualità (seta e cotone) ma anche per la metallurgia e l’industria del cemento.
Secondo Robert Kennedy junior*, lo spettro della guerra in Siria nasce nel 2009 dal rifiuto di Assad (figlio) di consentire il passaggio di un gasdotto dal Qatar verso la Turchia, che avrebbe attraversato Arabia, Giordania e Siria. Un gasdotto che avrebbe compromesso i consolidati rapporti siro-iraniani isolando ancora di più l’Iran e favorendo i sauditi e gli emirati, tradizionali alleati USA. Oltre a rifiutare il gasdotto sud-nord, Bashar al Assad nel 2010 avrebbe iniziato a trattare con l’Iran la costruzione di una altro gasdotto (est-ovest) destinato a portare il gas iraniano in Libano, attraversando il Kurdistan irakeno e la Siria.
Secondo il Kennedy-nipote i servizi americani, assieme al Qatar e all'Arabia Saudita, avrebbero iniziato allora a favorire l'opposizione siriana e a preparare una rivolta per rovesciare il regime di Assad. La rivolta iniziò effettivamente nel marzo 2011 a Daraa e si propagò ben presto ad Hama e Damasco. Il 6 luglio 2011 l’ambasciatore USA, Ford, arrivò ad Hama e si fece riprendere mentre salutava calorosamente i ribelli. È l’inizio della prima fase della guerra: quella dei ribelli contro i governativi.
Ma in questi 5 anni la guerra per procura si è “evoluta” complicandosi e intricandosi. È venuto fuori l’imprevisto Daesh e di recente anche turchi e russi si sono accordati e sono venuti allo scoperto, fra l’altro trattando anche il progetto di un altro gasdotto (il Turkish Stream, sotto il Mar Nero) che taglierebbe fuori tutti, soprattutto i curdi. In tutto ciò, la sensazione è che il comune denominatore di tutti i morti e dei milioni di profughi siano i gasdotti, ben aldilà quindi di qualsiasi pretesto religioso o di presunte primavere arabe. Gasdotti che servirebbero tutti a rifornire il ghiotto mercato europeo, sempre affamato di energia.
Georges è un giovane siriano, un bravo tecnico, tanto bravo che l’esercito non lo vuole mollare, sebbene si sia regolarmente congedato dopo due anni di drammatico servizio militare obbligatorio. Ma adesso non si tratta più di difendere né la patria né la legalità. Si tratta di uccidere o essere ucciso combattendo non si sa per chi o contro chi.
Le forze in campo sono troppe: governativi contro ribelli; jihadisti, daesh e foreign fighters contro curdi, a loro volta contro russi e governativi; e in mezzo carri armati turchi, caccia russi, combattenti hezbollah, addestratori e bombardieri americani, aerei della coalizione anti-isis, finanziamenti e armi provenienti non si sa da quali paesi del golfo, e poco oltre irakeni e curdi a Mossul che non vogliono aiuti dai turchi contro daesh: ostaggi civili, gas, ancora profughi e chissà che altro.
A Georges non è rimasto che andarsene oppure morire. Andarsene significa allontanarsi da genitori e famiglia, amici e patria e fuggire all’estero come clandestino. Ma questo è stato solo un primo passo: poi ha dovuto chiedere lo status di rifugiato, aspettare un anno arrangiandosi per vivere e sperando di essere accolto per sempre in qualche posto lontano da tutta quella follia. Andarsene per sempre non è così diverso da morire, ma è meglio che restare a morire senza sapere neppure perché.
Ieri ho salutato Georges che partiva per l’Australia.
*Nipote del presidente USA ucciso a Dallas. Cf. intervista a R. Kennedy junior su www.politico.eu del febbraio 2016