Haiti divisa tra ballottaggio e riconteggi
Sul Paese in ginocchio per il colera pesano accuse di brogli elettorali. Non si fermano gli scontri e i cortei di protesta. Il parere di Vincenzo Buonuomo esperto di diritto internazionale
L’isola caraibica in ginocchio dopo il terremoto e ora allo stremo per i casi di colera, più di 2.100 secondo l’agenzia Fides si trova ad un bivio amministrativo. I risultati delle recenti elezioni, ad Haiti, hanno scontentato la maggioranza della popolazione che è scesa in piazza per protestare. Si contano le vittime, mentre impossibile definire i cortei e gli attacchi persino alle truppe Onu, ritenute incapaci di garantire la sicurezza e nel contempo responsabili dell’epidemia di colera. Secondo alcune fonti infatti, i caschi blu provenienti dal Nepal avrebbero potuto importare il bacillo pericoloso. Le notizie sono state smentite dall’Onu, ma non sono state recepite dalla popolazione.
La proposta di un riconteggio delle schede gradita al candidato sostenuto dal presidente uscente Preval non è gradita dagli altri due contendenti, perché ritengono il sistema troppo corrotto, per garantire risultati trasparenti. Qualcuno prospetta nuove elezioni: soluzione improponibile per i costi, altri propongono un ballottaggio tra i tre maggiori contendenti. Gli ambasciatori dei Paesi stranieri hanno intanto fatto cartello comune, chiedendo ai candidati di presentare un ricorso. Per ora tutto è in stallo. Abbiamo chiesto un commento al professor Vincenzo Buonuomo, docente di diritto e organizzazione internazionale alla Pontificia università lateranense.
Perchè queste violente contestazioni ai risultati elettorali?
«Il ballottaggio, lo stallo post elettorale, mettono in evidenza non un problema di voti, ma di contrapposizioni in cui è assente l’idea del rapporto maggioranza-minoranza, quindi non c’è un concetto di democrazia, non dico compiuta ma almeno accennata ed è chiaro che dietro dei numeri e delle schede tutto si può verificare».
Il ruolo di osservatori esterni può tutelare le scelte espresse dal popolo nei seggi?
«Premetto che le elezioni devono servire, non a consolidare il potere di una persona, ma devono aprire un modo diverso di gestire il Paese. In questo momento rischiano di provocare un ulteriore aggravamento delle condizioni di sicurezza della nazione. Ad Haiti c’è un ordine pubblico garantito già da forze internazionali: i caschi blu, ma tutto questo ha generato il rigetto di una parte della popolazione verso questa presenza estranea. All’interno del Paese ci sono tante fazioni e gruppi così diversi che in questo momento non siano in condizione di poter pensare ad una realtà unitaria».
Le reazioni sono pilotate dall’esterno?
«No, non penso. Le reazioni sono pilotate da gruppi presenti nel paese perché l’ interesse esterno all’area è limitato, non ci sono grandi potenzialità, potremmo dire che è stato dimenticato dai grandi della terra negli ultimi 15 anni».
Ma i grandi invece sono stati molto presenti nelle azioni umanitarie…
«Su Haiti gli aiuti internazionali piovono da anni, ma non si riesce a modificare se non in minimissima parte nulla dal punto di vista alimentare e di condizioni di vita. Questo deve farci riflettere. Abbiamo visto dopo il terremoto, aeri che arrivavano, carghi che scaricavano tonnellate di merce. Haiti, per le sue dimensioni, nel giro di un mese con quel tipo di aiuti doveva risollevarsi e invece le macerie sono ancora lì, c’è insicurezza alimentare, si è in permanente emergenza sanitaria, nonostante gli sforzi veramente incredibili delle organizzazioni non governative che si stanno prodigando instancabilmente su più fronti: dai bambini alle medicine. In realtà nel Paese mancano gli interlocutori, manca una struttura economica e soprattutto sociale in grado di reggere e quindi anche l’apporto di queste azioni, non riesce a superare l’emergenza».