Habemus papam
Un film ben confezionato per Cannes. Moretti resta superficiale e controllato nei sentimenti e nella storia di un papa solo, che sperimenta, come tanti, l'inadeguatezza di fronte alle grandi responsabilità
Nanni Moretti ci riprova. E dopo Il caimano, arriva sugli schermi in 500 copie l’ultimo atteso film, in concorso a maggio al festival di Cannes. Questa volta, dopo la politica, il regista – anche se pubblicamente non lo ammette – indaga la chiesa, forse avendo come lontano refuso un vecchio film del 1968, L’uomo venuto dal Kremlino, con il quale l’opera morettiana presenta più di un rapporto. Questo nulla toglie alla lucidità di Moretti, che «si racconta» – l’autobiografismo è sempre dietro l’angolo – in un lavoro girato con il consueto perfezionismo con un cast di classe, tra cui un grande Michel Piccoli, nel ruolo del protagonista, Jerzy Sthur in quello dell’addetto stampa vaticano e Margherita Buy nella moglie dello psicanalista, interpretato dallo stesso regista.
La storia è ormai nota: l’anziano cardinal Melville diventa papa e da subito viene colto da una profonda sfiducia in sè stesso che lo precipita nella depressione, per cui non osa presentarsi al popolo che per tre giorni (un richiamo biblico?) lo aspetta con angoscia. Viene chiamato un celebre psichiatra non credente, che, mentre il papa fugge per Roma, in mezzo alla gente, in cerca di sé stesso, si trova anche lui “rinchiuso in conclave” con i cardinali, che Moretti descrive con pittoresca ironia (a volte sardonica). Il pontefice, alla fine, rintracciato dal suo addetto stampa ma anche dai cardinali (a teatro, mentre ascolta Cechov, da ex aspirante attore quale era stato) rientrerà in Vaticano, per il finale a sorpresa.
Nonostante Moretti non l’abbia troppo ammesso, l’ombra di papa Wojtyla, di cui si vedono le immagini delle esequie mentre scorrono i titoli di testa, è presente in più luoghi; come non manca un riferimento a Ratzinger – il successore- . Quando il nuovo papa medita di fare un discorso al popolo dicendo che «vuole cambiare molte cose, essere più vicino alla gente», forse un messaggio in codice per Ratzinger o comunque il pensiero morettiano sulla chiesa?
Lo spunto del film è senz’altro convincente: raccontare di un uomo, fosse anche il papa, che resta scioccato davanti ad una grande responsabilità cui si sente inadatto e da cui prova a fuggire è un argomento molto interessante, credibile perché vero. Avrebbe potuto dare il via ad una indagine psicologica e morale, profonda. Moretti però sembra procedere zigzagando tra le scene del papa solo o fra i vari tipi di gente che lo circonda, fino ai cardinali che mangiano, parlano, giocano a pallavolo o a carte (e non pregano mai), e lancia qua e là messaggi pungenti, ma di fatto resta in superficie. E, bisogna ammetterlo, con una certa ambiguità di fondo.
Né la fede, né la psicanalisi salvano, a quanto pare e quest’uomo impaurito, il papa, prenderà la sua sconcertante decisione finale in modo drammatico,anche se a suo modo coraggioso. Lo schermo buio è l’ultima sequenza del film e vale certo più di tante parole. Avesse meno ecceduto nel bozzettismo, nel voler troppo sentenziare ed anche nel cercare di avere uno sguardo più autentico sulla vita reale del Vaticano (un papa che non ha un segretario, cardinali con cappelli e mantelli di 50 anni fa, un mondo fatto di soli preti e suore), non avrebbe stonato.
Ma non è questo il punto. Moretti ha astutamente confezionato un prodotto ben fatto – musica, fotografia, scenografia – per Cannes e per l’immaginario collettivo di una certa chiesa. Qualcuno griderà al capolavoro. Forse, quello che gli manca è l’anima. E non basta il volto stralunato, infantile, cupo di Michel Piccoli, da solo,a restituirla ad un film dove tutto è controllato- anche i sentimenti- sino allo spasimo. Perché Moretti ha così paura dei sentimenti da sfiorarli solamente e da non lasciarvisi mai andare?