Gzime, maestro in Macedonia

Il piccolo Paese balcanico vive della convivenza tra cristiani (cattolici e ortodossi) e musulmani. Un uomo di pace è l’insegnante che ha eletto un “pino dell’amore” come simbolo della convivenza
Veduta di Skopje

È insegnante di lingue in una scuola elementare, Gzime, macedone di Skopije. La sua filosofia di vita è assai originale, o meglio assai inusuale nel suo ambiente: crede infatti che al mondo ci sia posto, e quindi anche nel suo Paese, e quindi anche nella sua città, per ognuno e per tutti. Per tutte le nazioni e per tutti i paesi, per tutte le fedi e per tutte le convinzioni. Musulmani o cristiani o atei, per lui è la stessa cosa. Gzime è musulmano.

«Nella nostra famiglia e al lavoro – dove da decenni educo generazioni su generazioni di giovani –, nell’ambiente nel quale viviamo io e mia moglie è naturale irradiare idee di vicinanza e simpatia. Abitiamo in un quartiere di Skopije dove si trovano quasi esclusivamente dei cristiani macedoni, in prevalenza ortodossi. Nel nostro circondario siamo l’unica famiglia albanese e musulmana, un primato insolito che tanti amici della nostra fede ci invitano ad abbandonare, per andare ad abitare nei quartieri esclusivamente musulmani. Ma siamo qui da trent’anni, e posso dire con tutta sincerità che abbiamo stretto solo relazioni gradevoli e arricchenti con i vicini di casa, nessuno escluso. Siamo sempre i primi invitati alle loro feste, anche religiose, e loro sono i primi invitati alle nostre. I bambini sono cresciuti insieme ai loro compagnetti cristiani (o atei), in un rapporto di rispetto e amicizia».

Nessuno si aspettava nel 2001 che scoppiasse una guerra civile vera e propria anche in Macedonia, dopo che si era riusciti non si sa come a mantenere una certa neutralità nel ben più grave conflitto del 1999, concentratosi nel confinante Kosovo. Nessuno la voleva, la guerra, in modo particolare la gente normale, il popolo sia musulmano che cristiano. «È il male più bastardo dell’umanità – prosegue Gzime –, perché porta con sé sentimenti di sfiducia, di paura e di tensione tra le diverse nazionalità, etnie e religioni. In quell’occasione, non solo i singoli ma anche intere famiglie hanno cominciato a trasferirsi da una parte all’altra della città, per poter vivere in quartieri etnicamente e religiosamente omogenei. Dopo aver meditato a lungo e col cuore lacerato, anche noi abbiamo deciso di mettere il cartello incriminato sulla porta di casa: “Vendesi”. Eravamo disposti pure ad esaminare proposte di scambio di abitazione con una eventuale famiglia cristiana che abitasse nei quartieri musulmani. Naturalmente i potenziali acquirenti hanno cominciato a visitare la nostra casa. La cosa è stata notata immediatamente dai nostri vicini: in un solo giorno si sono presentati sulla nostra soglia in una quindicina. Immancabilmente il loro argomentare era formulato pressappoco così: “Oggi non siamo qui da voi per il caffè o per il tè. Vogliamo parlarvi a cuore aperto. Se volete vendere la vostra casa per migliorare la vostra condizione di vita, questo è un vostro diritto; ma se volete traslocare per paura, per il timore che vi succeda qualcosa in questi giorni di guerra, sappiate che noi vi siamo accanto e lo saremo sempre. Non permetteremo mai che facciano del male alla vostra famiglia. Prima di voi, saremo noi a farci colpire. Se spareranno contro la vostra casa, noi faremo muro davanti ad essa per difendervi”».

Così Gzime e sua moglie Tania, dopo un’ulteriore riflessione, hanno ritirato la loro decisione di partire e il cartello per la vendita è stato gettato nel caminetto. «Non dimenticheremo mai più l’atteggiamento dei nostri vicini – prosegue Gzime –, perché era solo affetto che tornava, dopo che per tanti anni avevamo cercato anche noi di voler bene a tutti loro. In quei giorni di guerra hanno preso più forza in noi le idee di fraternità tra gli uomini».

Conclude l’uomo: «Che siamo sulla strada giusta, lo dimostra anche un altro episodio. Già da tempo volevamo piantare nel nostro giardino un pino, per abbellire la vista dalla finestra del salone. Lo abbiamo comprato quest’estate, pensando di piantarlo prima di partire in vacanza dai parenti di mia moglie, in Albania. Per una serie di contrattempi, la cosa non è stata possibile, tanto che ci chiedevamo se rinviare la partenza – il che ci avrebbe provocato non pochi problemi –, oppure rischiare di far morire la pianta. Ci decidemmo a malincuore per la partenza. Mentre già avevamo caricato l’auto, si è presentato da noi un primo vicino, un macedone cristiano. Desiderava augurarci buon viaggio. Ha visto l’albero per terra e ci ha chiesto che intenzioni avessimo. Quando ha capito che non avevamo avuto il tempo di piantarlo, ci ha detto che potevamo partire tranquilli, perché al pino ci avrebbe pensato lui. Al nostro ritorno l’albero svettava bello e robusto nel nostro giardino, più fiero di quanto potessimo immaginare. Lo abbiamo chiamato “il pino dell’amore”, perché rimarrà per sempre un simbolo di comunione e di pace».

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