Gustavo Gutiérrez: teologia della liberazione e pietà popolare

La lunga vita (1928-2024) del grande teologo latino americano che ha segnato con il suo pensiero un forte dibattito all'interno della Chiesa e nella società. L'incontro con la Teologia del popolo della scuola argentina
Da sinistra, Leopoldo Chiappo, Antonio Melis, padre Gustavo Gutiérrez e Javier Mariátegui Chiappe. Fonte: Archivo José Carlos Maríategui, Lima, Peru (archivo.mariategui.org). CC.

È morto a Lima, all’età di 96 anni, Gustavo Gutiérrez, teologo, considerato il padre della teologia della liberazione. Doveva la sua fama al suo volume Teología de la liberación, edito a Lima nel 1971 e tradotto in tutto il mondo. In esso la divisione sociale, che segnava la Chiesa latinoamericana alla fine degli anni ’60, veniva teologicamente consacrata.

«Di fronte al processo di liberazione, la Chiesa latinoamericana – scriveva Gutiérrez – si trova fortemente divisa. Presente in una società capitalistica in cui una classe s’oppone all’altra, la Chiesa, proprio nella misura in cui approfondisce il significato di questa sua presenza, non può sfuggire alla profonda divisione che separa gli uomini che accoglie, né pretendere di ignorarla per molto tempo. La partecipazione attiva a questo processo è ben lungi dall’essere un atteggiamento uniforme di tutta la comunità cristiana latinoamericana. La parte maggiore della Chiesa rimane legata, in diversi modi, all’ordine stabilito. Il fatto più grave non è tanto che fra i cristiani in America Latina ci siano opzioni politiche differenti, nel quadro di un libero gioco d’idee, quanto che la polarizzazione di queste opzioni e la durezza della situazione pongano alcuni di essi fra gli oppressi e i perseguitati, ed altri fra gli oppressori e i persecutori, gli uni fra i torturati e gli altri fra coloro che torturano o permettono che si torturi. Ne nasce un serio e insanabile conflitto fra i cristiani che soffrono l’ingiustizia e lo sfruttamento, e quelli che approfittano dell’ordine stabilito».

La scissione politico-sociale non poteva non riflettersi in quella ecclesiale. La comunione eucaristica diveniva impraticabile. «Le opzioni che, coi limiti ricordati, la comunità cristiana va facendo, la pongono sempre più chiaramente di fronte alla alternativa che si vive attualmente nel continente: per o contro il sistema, o, più sottilmente, fra riforma e rivoluzione. Sono molti i cristiani che hanno risolutamente scelto il difficile cammino che porta alla seconda». L’opzione rivoluzionaria di Gutiérrez lo portava al rifiuto netto del desarrollismo, delle prospettive di sviluppo economico basato sui processi di industrializzazione che governavano l’America Latina degli anni ’60. Così come, su un altro piano, al rifiuto del riformismo come metodo politico. L’opzione per la lotta di classe implica lo scontro, non la risoluzione indolore dei contrasti.

Affascinato dal movimento di Fidel Castro e di Che Guevara – più volte citati nel testo –, dalla figura simbolo del prete guerrigliero Camillo Torres, Gutiérrez giustificava la “contro-violenza”, cioè la violenza rivoluzionaria come reazione alla violenza dello Stato e del capitale. Seguendo la teoria marxista, la Teologia della liberazione identificava la liberazione primariamente come liberazione dalle strutture, l’unica strada che poteva portare al socialismo latinoamericano e alla nascita dell’Uomo Nuovo. Un risultato, quest’ultimo, che tradiva la confusione dei piani, tipica della primitiva Teologia della liberazione: quello teologico e quello politico.

Il teologo e sacerdote Gustavo Gutiérrez. Di Mohan – Opera propria, pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2894684

Gutiérrez, al pari delle teologie politiche elaborate nello stesso periodo in Germania da J.B. Metz e da J. Moltmann, leggeva allora il cammino della liberazione come processo di “salvezza”, come progressivo attuarsi del Regno. In tal modo, la critica al dualismo teologico tra naturale e soprannaturale si convertiva, nell’autore, in un messianismo politico-religioso in cui la meta socialista diveniva l’attuazione del Regno di Dio. Una ingenuità di cui Gutiérrez farà ammenda in anni successivi, come documenta la nuova introduzione al suo testo, datata febbraio 1988. Scriverà allora, criticando il primato della prassi teorizzato in precedenza, che «i criteri ultimi in teologia provengono dalla verità rivelata che accogliamo dalla fede e non dalla prassi stessa».

Il circolo tra ortoprassi e ortodossia non consentiva più di parlare, marxianamente, di primato della prassi. Così come non consentiva di inquadrare il problema della povertà solo in chiave socio-economica. L’autocritica di Gutiérrez, la cui nuova Teologia della liberazione salvava l’opzione preferenziale per i poveri e la critica alle ingiustizie, era il frutto di un clima più sereno. Nella edizione del 1988 risultava nuova l’introduzione, titolata Guardare lontano, mentre rifatto era il paragrafo 2c del capitolo XII Fede e conflitto sociale. In esso la Teologia del popolo della Scuola argentina del Rio de la Plata, promossa da Lucio Gera, la quale univa impegno per la giustizia e pietà popolare, veniva riconosciuta come autentica teologia della liberazione. Nella nuova introduzione Gutiérrez confessava come, nei 17 anni che separano la seconda dalla prima edizione, fosse mutata sensibilmente la sua visione del tema dei poveri e del loro mondo.

Per quanto ci riguarda, è stata l’esperienza più importante – addirittura schiacciante – di questi anni. Si tratta in realtà di un vero universo nel quale l’aspetto socioeconomico, pur fondamentale, non è l’unico. In ultima analisi, la povertà significa morte. Carenza di cibo e di un tetto; impossibilità di soddisfare come si deve le necessità relative alla salute e all’educazione; sfruttamento del lavoro […]. Al tempo stesso – è importante ricordarlo – la povertà non consiste solo in carenze. Il povero possiede molte volte una cultura con valori suoi propri; essere povero è un modo di vivere, di pensare, di amare, di pregare, di credere e di sperare.

L’accorgersi di questa seconda dimensione è, per Gutiérrez, una novità: «La dimensione economica non sarà più la stessa, se valorizziamo il punto di vista culturale e viceversa». Questa prospettiva consentiva di valorizzare la dimensione religiosa dell’anima popolare, in precedenza trascurata e giudicata, illuministicamente, come un residuo premoderno. Una dimensione che implicava l’attività orante, di preghiera, molto intensa tra i poveri dell’America Latina. Com’egli scriveva:

«La vita cristiana è impegno come accettazione del dono del Regno ed è anche preghiera. Senza dimensione contemplativa non c’è vita di fede. Il popolo latinoamericano lotta per la giustizia ed è al tempo stesso un popolo che crede e spera; un popolo oppresso e insieme cristiano, attento – come Maria nel Magnificat – al rendimento di grazie e al fiducioso abbandono in Dio. Questa pratica orante caratterizza la fede del nostro popolo. Troviamo in essa una forma di preghiera che la mentalità moderna corre il rischio di considerare primitiva, per non dire superstiziosa. […] Profondamente ancorata a questa devozione popolare, e nutrendosi nello stesso tempo del suo aspetto di protesta contro l’oppressione e di rivendicazione della libertà, la vita orante delle comunità cristiane impegnate nel processo di liberazione possiede una grande creatività e profondità. Chi ha potuto dire qualche volta che in America Latina si stava perdendo il senso della preghiera non ha fatto altro che dimostrare con questo il proprio distacco dalla vita quotidiana dei settori poveri e impegnati del nostro popolo».

Si trattava di una conclusione inedita che rovesciava l’impianto teorico, filomarxista, della prima teologia della liberazione, e la poneva in sintonia con la Teología del pueblo argentina, la stessa che avrà una sua influenza anche su Jorge Mario Bergoglio. «Ci troviamo davanti a un’autentica spiritualità, un modo cioè di essere cristiani. Il congiungersi di queste due dimensioni, preghiera e impegno, costituisce a rigore ciò che chiamiamo pratica. Da essa deriva la teologia della liberazione». Questa, nel «vincolo obbligato e fecondo che unisce ortoprassi e ortodossia», riconosce ora apertamente il primato della fede sulle opere: «I criteri ultimi in teologia provengono dalla verità rivelata che accogliamo nella fede e non dalla prassi stessa».

La prefazione del 1988 alla nuova edizione della Teología della liberación, rivista e corretta, profilava le condizioni per un incontro con la Teología del pueblo. Gutiérrez riconosceva ora l’importanza della fede popolare, della preghiera, del dialogo con la “cultura” latinoamericana nelle sue espressioni concrete. Il tutto dentro il superamento dell’orizzonte ideale del marxismo segnato dal primato della prassi e della (contro)violenza rivoluzionaria. La “svolta” di Gutiérrez era importante. Documentava che la Teologia del popolo era a pieno diritto una forma della Teologia della liberazione e che il tema della devozione popolare, liberato dal “devozionalismo” e dai pregiudizi illuministici, poteva assurgere a luogo teologico, a prova della inculturazione della fede nella peculiare forma latinoamericana.

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