Guru Uppadhyaya-ji

È scomparso il prof. Sureshchandra Uppadhyaya. Un amico, un padre, un guru. Una luce che illumina il mio cammino, che sento dentro di me. Il suo rapporto con Chiara Lubich

‘Guru’, una parola ormai diventata globale e, come tutto ciò che viene globalizzato (non universalizzato!!!), perde il suo senso più profondo. Certo! ‘Guru’, infatti, come tutte le parole che provengono dal sanskrito ha una radice che esprime già il senso prezioso della persona a cui viene attribuito come titolo. ‘Gr’ – questa è la radice – porta il senso della luce, di ciò che illumina. E il ‘guru’ è proprio quello che illumina la strada, che ti fa vedere dove devi camminare e quale direzione prendere.

Non è un mestiere il ‘guru’, è, piuttosto, una realtà e non si può mai scegliere di essere ‘guru’. Sono gli altri che ti definiscono il loro ‘guru’. Perché solo chi ha avuto la sua via illuminata da qualcuno sa veramente come stanno le cose e chi è stato veramente la persona che ha operato quel modo di essere quasi magico che avviene in modo misterioso e reale. Ovviamente, ognuno di noi ha avuto i suoi maestri o maestre di vita, di spiritualità, di professione e potremmo continuare all’infinito. Ma il vero ‘guru’ è un’altra cosa.

È una persona che ti coinvolge pienamente, che entra nella tua vita con delicatezza e di cui non puoi più fare a meno, senza però una dipendenza passiva. Il rapporto con ‘guru’, quando è vero ti lascia libero, profondamente libero. E, poi, da un certo momento in poi, quasi non c’è più bisogno di parlare fra ‘guru’ e ‘shishya ’ (allievo-seguace). Ci si capisce anche se si vive in un altro continente. Tuttavia, resta difficile, quasi impossibile, per chi non ne ha fatto l’esperienza spiegare chi è un vero ‘guru’, a dispetto dell’inflazione globalizzata, a cui accennavo, che ha investito questo termine, ma che non ha intaccato la realtà del ‘guru’.

Tutto quanto ho appena descritto – e ovviamente molto, molto altro – potrebbe sintetizzare la mia esperienza con il prof. Sureshchandra Uppadhyaya. Stamattina, appena sveglio, ho ricevuto la notizia che, come diceva il messaggio whatsapp, era partito per il suo viaggio in cielo. Uppadhyaya-ji (il ‘ji’ finale è la forma di rispetto) era l’epiteto del ‘guru’. E questo non tanto per la barba ed i capelli fluenti, per il suo cognome che significa ‘coloro che hanno studiato le Upanishad’, libri sacri dell’induismo, nemmeno per come parlava con uno stile affascinante che non potevi non seguire e che avresti ascoltato per ore. Ma per il suo ‘essere’. Uppadhyaya-ji era un guru. Decine, forse centinaia di persone lo hanno riconosciuto tale a livello accademico, all’interno del prestigioso istituto Bharatya Vidhya Bhavan di Mumbai, dove ha speso una vita a formare persone alla vera cultura indù. Ma soprattutto era riconosciuto ‘guru’ per il suo ‘essere’.

Ricordo ancora il nostro primo incontro. Avevo da poco iniziato a lavorare al Consolato Generale d’Italia a Mumbai e condividevo l’ufficio con una collega indiana, zoroastriana ma diventata cristiana e anche cittadina italiana. Una mattina Uppadhyaya entrò nel nostro ufficio e la mia collega me lo presentò come il suo guru. Fui colpito dal suo sguardo penetrante e, allo stesso tempo, di una serenità sconfinata. Ascoltava in silenzio, con sacralità. Poi diceva poche parole. Veniva una volta al mese e la mia collega non mi ha mai chiesto di uscire – anche se io avevo proposto sempre di lasciarli soli – e questo mi permetteva di cogliere tratti del rapporto fra loro. Qualche mese più tardi decisi di iscrivermi ad un corso di hindi colloquiale e, con grande sorpresa, mi ritrovai il prof. Uppadhyaya come insegnante. Cominciai a capire cosa significasse essere ‘guru’. Non mi insegnava hindi, ma tutto il modo di essere, il senso culturale, spirituale e storico che stava dietro a una parola o a una frase o un modo di dire. La sua era una scuola non di lingua ma di cultura e di essere. I nostri contatti continuarono per anni in questo contesto, con incontri sporadici in occasioni ufficiali, ma sempre molto cordiali e profondi.

Uppadhyaya-ji con Chiara Lubich
Uppadhyaya-ji con Chiara Lubich

Poi, attraverso un amico al quale lo avevo fatto conoscere per avviarsi alla conoscenza del mondo indù, venne la possibilità di invitarlo ad un incontro in occasione della prima visita in India di Chiara Lubich. Il loro fu un incontro di cuori e di pensiero. Sono stato testimone di cosa significhi per due persone di culture e religioni diverse, uno uomo e l’altro donna, umanamente lontani anni luce, incontrarsi e capirsi perfettamente al di là di parole, spiegazioni o altro. Fin dal primo momento – e questo me lo hanno confidato entrambi in situazioni assolutamente diverse – si sono sentiti perfettamente capiti l’uno dall’altro. In vari occasioni, per convegni diversi, hanno dialogato in privato e in pubblico. Quasi sempre mi è capitato di essere il loro interprete e avevo l’impressione che la loro comprensione reciproca fosse totale e andasse al di là dei loro corpi e delle loro menti.

Una volta, Uppadhyaya rimase sconvolto a sentir parlare di Gesù abbandonato, uno dei capisaldi della spiritualità cristiana di Chiara Lubich. Chiese la parola e con un grande tatto, autodefinendosi ignorante e incapace di capire, spiegò che per lui era impensabile che un Dio potesse essere abbandonato. Il discorso fu di una umiltà esemplare e, allo stesso tempo, di un grande spessore spirituale. Chiara si sentì interpellata in prima persona e volle rispondere davanti al convegno che si stava svolgendo, offrendo una delle più belle risposte – forse la più bella e completa – mai offerta su questo punto della sua spiritualità: un capolavoro di catechetica cattolica e delicatezza dialogica. Alla fine il professore commentò: «Tu, Chiara, capisci quanto io ho nel cuore prima che io stesso lo possa capire».

Questo era Sureshchandra Uppadhyaya. Per me resta un amico, un padre e anche un guru. Avevo insegnato per vari anni lingua italiana nella sua istituzione grazie ad un contratto che eravamo riusciti a firmare con il Ministero degli esteri italiano. È stato decisivo nella mia esperienza in India e nella comprensione dell’induismo, nella scelta della mia tesi di dottorato di cui mi ha consigliato l’argomento e mi sono reso conto di quanto avesse ragione con quel suggerimento. Il mio rapporto personale con lui era, ormai, al di là di tutto. Negli ultimi anni non era possibile sentirci spesso, ci eravamo incontrati due anni fa e faceva ormai fatica a vedere e riconoscere le persone. Ma mi aveva subito riconosciuto – Catalano-ji così mi chiamava.

Mi ha fatto impressione la reazione che ho avuto stamattina quando da diverse persone a Mumbai e non solo ho ricevuto messaggi della sua morte. Ho avvertito una pace profonda, come l’avevo avvertita solo in due occasioni, la morte di mia madre e di Chiara Lubich. Non sento di aver perso un guru, un amico, un padre. Sento di averlo sempre al mio fianco, oserei dire dentro di me. Ma è difficile spiegare, forse la radice di tutto sta proprio nella radice della parola, quel ‘Gr’ che significa ‘luce’. E la luce ci segue dovunque, ce la portiamo dentro e ci precede.

Il blog di Roberto Catalano lo trovi qui

 

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