I gufi e le montagne russe
La similitudine delle montagne russe è molto efficace per descrivere i fenomeni epidemici: molte patologie virali respiratorie sono soggette a una stagionalità più o meno marcata, cosa che genera un susseguirsi di picchi e di periodi di relativa tregua, in maniera similare a ciò che accade per l’influenza.
La seconda ondata ha superato l’apice alla fine di novembre; il picco è stato caratterizzato da una crescita molto rapida dei casi e da una fase di discesa leggermente più veloce (anche se la situazione è ancora molto fluida). Rispetto alla prima ci sono differenze sostanziali:
– il numero di persone contemporaneamente positive ha superato gli 800 mila (mentre non arrivavano a 110.000 nel picco di marzo);
– il numero contemporaneo di ricoverati (e la quota, fra questi, assistiti in terapia intensiva) invece è molto simile nei due periodi, con una enorme, importantissima differenza: non sono più quasi tutti concentrati in poche Regioni d’Italia, ma distribuiti in tutto il territorio.
– di conseguenza, il rapporto fra i ricoverati in ospedale e casi sul territorio e ricoveri è cambiato: da oltre il 50% nelle prime fasi della malattia al 15-20% della fine del primo picco, fino all’attuale 4-5%.
I motivi di queste differenze sono anzitutto legati alla maggiore capacità di individuare i casi asintomatici, il cui indicatore è la percentuale di tamponi positivi sul totale dei test eseguiti; nel primo picco era intorno al 20%, con punte del 35-40%, mentre adesso si è assestato intorno al 10% con punte intorno al 16-17%.
Oltre a ciò, la gestione dei pazienti è molto diversa: in parecchie regioni si è consolidata una forma di assistenza territoriale, integrata con gli ospedali, che permette a molti cittadini di essere assistiti a domicilio nelle fasi asintomatiche o meno critiche della malattia.
L’andamento futuro di questa seconda fase di malattia è difficilmente prevedibile; le attuali misure restrittive stanno dimostrando una discreta capacità di controllare i casi, ma esistono fondati timori sulla possibilità di una rapida (e pericolosa) recrudescenza nelle prossime settimane, complici anche le previste riaperture dei trasporti e l’ulteriore riduzione delle limitazioni agli spostamenti.
La difficoltà maggiore è per gli ospedali: oltre ai costi in salute e vite umane ancora elevatissimi (700 morti al giorno nelle ultime due settimane), i casi che giungono a ricovero sono sufficienti a “saturare” la disponibilità di posti letto che si possono sottrarre ad altre attività, come la chirurgia programmata, i trattamenti oncologici, la gestione delle emergenze cardiovascolari o le patologie respiratorie croniche riacutizzate.
Se dovessero aumentare, si avrebbero effetti molto penalizzanti sulla salute dei cittadini e sulla capacità di tenuta dei servizi territoriali: il personale impegnato nelle aree Covid non sarebbe più disponibile per mantenere attivi servizi come l’assistenza domiciliare, medicina di famiglia, servizi di screening e di prevenzione, campagne vaccinali, servizi psichiatrici, consultori… E non si possono aumentare i professionisti “fabbricandoli” rapidamente, come si fa con i letti e i ventilatori.
La gestione
Di recente sono stati messi a punto e utilizzati nella seconda ondata protocolli di gestione territoriali che includono terapie di supporto efficaci e, soprattutto, protocolli condivisi per il monitoraggio delle condizioni dei malati, i quali possono ricorrere alle cure ospedaliere in modo tempestivo, ma solo laddove necessario.
Come più volte si è detto, la partita con il Covid-19 si gioca nel territorio. La vera sfida della pandemia è stata proprio quella di spostare l’attenzione dalle risorse ospedaliere alla gestione comunitaria, dalle terapie invasive ad alta tecnologia (pur indispensabili nella fetta di pazienti più gravi) alla quotidianità della prevenzione, della sorveglianza e della gestione domiciliare dei malati.
Allo stato attuale le terapie farmacologiche efficaci rimangono infatti quelle di supporto: i protocolli di gestione dei pazienti comprendono l’uso di ossigeno, cortisonici e anticoagulanti, mentre non sono disponibili certezze sull’effettiva utilità dell’unico antivirale che sembra essere efficace (remdesivir) e del plasma iperimmune, che rimangono autorizzati per uso “compassionevole”, ossia al di fuori delle evidenze scientifiche consolidate.
La cosa che stiamo tutti imparando è che una precoce e corretta gestione dei casi, a domicilio e sul territorio, in questa insidiosa malattia può davvero fare la differenza fra la vita e la morte, anche per i pazienti meno anziani e meno fragili.
La prevenzione
Le cose potrebbero cambiare parecchio con l’introduzione della vaccinazione di massa: dopo gli annunci delle case produttrici e la pubblicazione dei risultati degli studi di popolazione (la così detta “fase 3” dello sviluppo del vaccino), prima in Inghilterra e a seguire negli Usa è iniziata la campagna di vaccinazione di massa. L’Europa, che attende l’autorizzazione formale dell’ente regolatore (EMA, che ha programmato le prossime sedute il 29 dicembre e il 12 gennaio), dovrebbe seguire a ruota nelle prossime settimane.
Si tratta senz’altro di un risultato straordinario, che mostra tutta la potenza del settore della ricerca e produzione farmacologica mondiale.
Nell’attesa di poter vedere gli esiti della vaccinazione di massa, uno studio sul prestigioso New England Journal of Medicine, condotto su un totale di oltre 43 mila cittadini, conferma sostanzialmente quanto dichiarato sul vaccino Pfizer, stimando un’efficacia fra il 90 e il 97%. Una speranza quindi credibile e concreta, che potrebbe davvero permettere di archiviare l’era delle restrizioni e delle chiusure, permettendo di gestire diversamente la circolazione del virus nella popolazione. Sarà necessaria la sorveglianza molto attenta dei casi e, in ogni caso, non sarà possibile pensare di abbandonare del tutto le precauzioni, almeno fin quando il coronavirus continuerà a serpeggiare in modo significativo fra la popolazione umana.
È bene chiarire che, essendo un virus adattato a molte specie animali, non si può pensare di eradicarlo, ma solo di tenerlo sotto controllo (seguendo con attenzione la sua tendenza a mutare in fretta).
Il vaccino, insomma, non sarà un colpo di spugna su questa storia, sebbene è verosimile che rappresenterà un’arma formidabile.
Ma le incognite sono ancora molte; le riassume bene l’articolo del NEJM che ho citato poco sopra: «Solo 20 mila persone hanno ricevuto questo vaccino. Emergeranno problemi di sicurezza inattesi man mano che il numero di vaccinati aumenterà di milioni e potenzialmente di miliardi? Emergeranno effetti collaterali di lungo periodo? […] Per quanto il vaccino sarà efficace? Il vaccino previene i casi asintomatici e limita la trasmissione del coronavirus?»
Insomma, la partita è molto aperta: ci vogliono prudenza, attenzione e rispetto per la vita umana; è ciò che ci ha portato qui, sopravvivendo per migliaia di anni come specie e come civiltà: sono i nostri valori e dobbiamo proteggerli. E se questo significa fare un po’ i gufi sulle montagne russe della storia, è sempre meglio preoccuparsi che volare di sotto.