Guerre, risorse energetiche ed eco-transizione
Il XXI secolo si è aperto con un quadro internazionale assai complesso in cui l’ONU si presenta chiaramente depotenziata dall’azione costante delle diverse potenze interessate ad operare autonomamente senza dover rispondere ad autorità superiori. Ne è un esempio il cosiddetto “diritto di veto” posseduto gelosamente dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, che blocca ogni decisione sgradita ad una delle cinque potenze.
Ne consegue che le iniziative internazionali di peacekeeping sono condannate a non incidere sui nodi importanti del quadro mondiale, ad essere per certi versi marginali e a lasciare spazio ad alleanze o coalizioni connesse ad esigenze temporanee, come ad esempio la guerra contro l’ISIS.
Nel frattempo continua l’azione di accaparramento delle risorse sull’intero pianeta, creando da un lato forti tensioni e dall’altro crescenti squilibri economici, che generano a loro volta pressioni migratorie di profughi economici, ambientali o da guerre, giunti nel 2022 ad oltre 100 milioni secondo l’UNHCR.
Uno dei fattori propulsivi risiede proprio nei cambiamenti climatici, che attraverso la desertificazione e l’innalzamento delle acque rendono interi territori non più abitabili, analogamente a quanto provoca la dissennata azione di land grabbing (accaparramento delle terre, ndr) che espelle intere popolazioni dal loro habitat nativo. Se aggiungiamo pandemie come quella da Covid19 e le sue conseguenze, il quadro appare particolarmente fosco.
A tutto questo si cerca di rispondere attualmente non attraverso forme di cooperazione, ma rafforzando lo strumento militare: le spese per la difesa a livello mondiale stanno crescendo continuamente da circa 25 anni e sono arrivate nel 2021 a 2.113 miliardi di dollari, mentre erano 1.075 nel 1998. Se gli Stati Uniti ne coprono un terzo, l’altro terzo comprende Cina, Unione Europea, India e Russia.
All’aumento delle spese militari e all’incremento della conflittualità fa da riscontro l’export di armi che si attesta su una cifra stimabile sui 30-35 miliardi di dollari nel 2021, comprendendo sia i maggiori sistemi d’arma (mezzi corazzati, navi, velivoli ecc.) sia le armi piccole e leggere.
E tutte queste armi sostengono il confronto per l’accaparramento delle risorse naturali (come l’acqua, il legname ecc.), di quelle energetiche (petrolio, gas, carbone), di quelle minerarie (oro, rame, terre rare ecc.), nonché per la conquista di spazi strategici (come il controllo di chokepoint, cioè gli stretti canali presenti nelle rotte più trafficate, di aree marine, porti ecc.).
Papa Francesco ha parlato di terza guerra mondiale a pezzi, riferendosi ai tanti conflitti di varia intensità in corso sul nostro pianeta.
Questi conflitti lasciano sul terreno tracce pesanti: in primo luogo i territori rimangono pericolosi e inabitabili per la presenza di esplosivi di varia natura (mine, ordigni inesplosi – uxo -, cluster bombs), stimati al momento in circa 110 milioni di ordigni che annualmente uccidono circa 5.000 persone e ne feriscono tra le 15 e le 20.000.
Gli scontri creano anche danni ambientali a terreni, boschi, falde idriche e inquinamento da combustione (incendi e altro), nonché anche danni a industrie chimiche, impianti energetici e centrali nucleari. In quest’ultimo caso basta pensare ai rischi attuali che si stanno correndo con i combattimenti intorno alla centrale di Zaporizhzhia e al pericolo di replicare il dramma di Chernobyl.
Ma il conflitto comporta anche l’uso di materiali pericolosi che possono inquinare in quanto agenti chimici (come il fosforo o l’uranio impoverito ad esempio). Quest’ultimo ha lasciato una scia di malattie in Iraq, dove era stato massicciamente usato dalle forze armate statunitensi, anche all’interno delle quali comunque sono stati evidenziati abnormi casi di morbilità ad esso connessi, come è stato documentato dalla ricerca di Noemi Sara Gentile Conflitti e ambiente. Il caso dell’uranio impoverito in Iraq apparsa nel numero di “IRIAD Review” del febbraio 2022. Risulta che diversi Paesi (Regno Unito, Stati Uniti, Francia, Russia, Grecia, Turchia, Israele, Arabia Saudita, Bahrain, Egitto, Kuwait, Giordania, Pakistan, Oman, Thailandia, Cina, India e Taiwan) abbiano armi di tal genere.
Comunque, le forze armate usano ingenti quantità di carburanti, necessitano di energia e, ancora prima, usano armi che hanno un costo ambientale per la produzione, lo stoccaggio, il trasporto e lo smaltimento.
Peraltro queste emissioni militari non sono incluse nei totali delle emissioni nazionali, per via in gran parte delle pressioni esercitate proprio del governo americano durante la negoziazione del Protocollo di Kyoto del 1992. Il successivo accordo di Parigi del 2015 (COP21) non riporta tale esclusione, ma esse comunque sono rimaste fuori dal conteggio, divenendo di fatto una comunicazione facoltativa. Per capirne la portata basta sapere che il carro armato T-80 russo fa con 8 litri di carburante un solo km, mentre a quello statunitense Abrams M1 ne occorrono 4,5 l a km. Si calcola che le sole forze armate statunitensi nel 2017 abbiano emesso diossido di carbonio per 59 milioni di tonnellate.
Di fronte alla crisi energetica innescata dalle conseguenze dell’attacco russo all’Ucraina, è divenuto di dominio pubblico il fatto che le forniture di gas dalla Russia rappresentavano nel 2021 il 45% delle importazioni di gas dell’UE, che da tempo aveva imposto al Cremlino alcune sanzioni per l’invasione della Crimea. In particolare negli anni ‘90 l’import di gas dalla Russia in Italia era arrivato al 46,4% (1994), per poi diminuire sino al 19,9% (2010) e riprendere a crescere sino al 43,3% (2020).
Se oggi si parla tardivamente di transizione ecologica, va ricordato che, per un breve periodo (solo una quindicina di anni fa) ci fu un sostegno alle energie rinnovabili con un incremento medio annuo pari a 5,9 GW l’anno, ma dopo esso si ridusse a meno di 1 GW, evidenziando una sottovalutazione dell’importanza delle rinnovabili e preferendo altre risorse, accogliendo l’offerta di Mosca apparentemente più conveniente, ma, come si vede oggi chiaramente, fortemente condizionante.
Nei primi mesi di quest’anno, di fronte alla crisi energetica il governo Draghi, oltre a impegnarsi a trovare nuovi fornitori di gas, ha proposto nell’immediato la riapertura delle centrali a carbone (peraltro importato nel 2020 per il 55,8% dalla Russia), mentre da alcune parti si ritornava a proporre la scelta delle centrali a energia nucleare (ignorando la questione irrisolta delle scorie radioattive, non dichiarando i tempi di realizzazione stimabili in 15-20 anni, ignorando i due precedenti referendum contrari, la peculiarità di obiettivi sensibili e l’esposizione al rischio sismico).
Il discorso sulle energie rinnovabili non sembra attualmente essersi concretizzato in specifici programmi, mentre potrebbe rendere il nostro Paese largamente autosufficiente ed esente da avere possibili obiettivi altamente esposti ad eventuali attacchi (come appunto centrali termo/idroelettriche o nucleari).
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