Guerre e diseguaglianze. Agire sulle cause
Paolo Pezzati interverrà come rappresentante di Oxfam Italia, la mattina di domenica primo ottobre all’edizione di Loppiano Lab 2017 incentrata sull’invito di Francesco a “cambiare le regole del gioco” e cioè ad agire sulle cause strutturali dell’ingiustizia e della violenza. Una finalità che costituisce l’identità di Oxfam che si presenta come «movimento globale di persone che vogliono eliminare l’ingiustizia della povertà» articolato in una confederazione internazionale di organizzazioni non profit attive in oltre 90 nazioni. Oxfam Italia condivide con il Movimento dei Focolari Italia, Amnesty international, Rete pace, Rete disarmo e Banca etica la campagna di pressione e coscientizzazione mirata a fermare ogni export di armi verso il conflitto in Yemen, Paese dove Oxfam presta la sua azione umanitaria. Loppiano Lab rappresenta un momento per approfondire le ragioni di un impegno comune che emergono da questa intervista.
Secondo uno dei vostri ultimi rapporti riportati con grande attenzione sui media, negli ultimi decenni le disuguaglianze economiche sono cresciute in maniera esponenziale, al punto che oggi l’1% più ricco della popolazione mondiale possiede più ricchezza del restante 99%. Estremizzando il dato, 8 super miliardari possedevano nel 2016 una ricchezza aggregata pari a quella della metà più povera della popolazione mondiale (oltre 3,6 miliardi di persone). Come si spiega, secondo Oxfam, questa impennata?
Le ragioni dietro una sempre più marcata concentrazione della ricchezza (intesa come il valore complessivo dei patrimoni mobiliari e immobiliari individuali al netto delle passività) sono molteplici. Un ruolo non secondario potrebbe essere stato giocato dalla scelta attuata da molti governi di ridurre o cancellare del tutto le imposte di successione. La trasmissione ereditaria dei patrimoni può infatti contribuire alla concentrazione della ricchezza in vari modi, ad esempio attraverso rendimenti sensibilmente maggiori su patrimoni più elevati. Una cospicua parte della ricchezza è verosimilmente riconducibile a relazioni di natura clientelare e a un forte condizionamento da parte delle élite di scelte dei governi in materia di politica economica e fiscale. Non passa inosservato come clientelismo e ricchezza ereditata siano difficilmente etichettabili come fenomeni meritocratici. Un recente discussion paper di Oxfam stima infine che almeno il 15% della ricchezza degli ultramiliardari globali derivi da vere e proprie posizioni di rendita monopolistica nei settori dell’economia in cui operano le loro società o dallo sfruttamento di altre distorsioni sui mercati.
Quali sono le conseguenze di tale estrema diseguaglianza?
Un mondo in cui le disparità socio-economiche si vanno acuendo è un mondo sulla cui tenuta e sul cui futuro regna un profondo senso di incertezza. La disuguaglianza paralizza la mobilità sociale, crea le condizioni per un aumento della criminalità e della corruzione, ed è all’origine di molti conflitti. Il preoccupante profilo della disuguaglianza alimenta lo scetticismo dei cittadini sulla capacità dei governi di risolvere problemi legati alla loro quotidianità e pone seri rischi alla stabilità politica. La scarsa rappresentatività degli interessi di chi è ai margini o a rischio di esclusione sociale mina le fondamenta stesse delle società in cui viviamo. Oltre ad accrescere un senso di profonda ingiustizia e inquietudine civica (l’estremalità raggiunta dal fenomeno è sintomatica di un sistema economico i cui benefici sono distribuiti in maniera iniqua fra le diverse fasce della popolazione) gli attuali livelli di disuguaglianza pongono infine seri interrogativi sulle prospettive di una crescita duratura e sostenibile e minano alla radice i progressi nella lotta alla povertà registrati su scala globale negli ultimi decenni.
Il mercato delle armi alimenta il perdurare dei conflitti e perpetua e accresce le disuguaglianze. E le disuguaglianze – secondo l’economista statunitense premio Nobel Joseph Stiglitz – sono la madre di tutti i problemi: indeboliscono l’economia e minano la coesione sociale, la stabilità politica e la democrazia, favoriscono la corruzione e riducono la mobilità sociale, suscitano violenza soprattutto se mortificano un gruppo sociale distinto per etnia, religione, razza o provenienza. Come si interrompe tale meccanismo ?
Va detto che bisogna vedere cosa c’è dentro le disuguaglianze, perché non sono tutte uguali, e che i conflitti hanno tante cause, fra le quali sicuramente c’è anche la disuguaglianza, insieme con la matrice etnica, per esempio, e la sete di potere di alcune classi dirigenti. Certamente però possiamo dire che la disuguaglianza è una delle cause principali che portano ai conflitti (insieme al basso livello di democratizzazione del Paese, il livello di apertura, ed altre cause). Per scongiurarli la speranza è che ci sia una sempre maggiore attenzione ai servizi fondamentali, quindi a soddisfare i bisogni essenziali della persona, e fra tutti, appunto, quelli sanitari ed educativi. Un Paese che ha persone sane e colte è un Paese che può interrompere questo circolo vizioso. Allo stesso tempo serve una maggiore responsabilità a livello internazionale: gli Stati più ricchi del mondo, invece di seguire al loro interno politiche economiche dettate dal mero profitto di medio e breve periodo, dovrebbero essere più altruiste e condividere la responsabilità del destino comune dell’umanità, e dunque mettere in piedi tutta una serie di politiche strutturali che favoriscano lo sviluppo in uscita da situazioni di povertà estrema o di povertà acuta di molti Paesi, e che rafforzino anche le condizioni di Paesi all’interno delle aree più fragili.
Per i Governi sembrerebbe più costoso investire per sanare le disuguaglianze che non investire nella corsa alle armi e nelle spese militari. Come mai?
Più che investire nelle armi è l’industria nazionale che viene considerata in molti dei Paesi più ricchi come volano per l’economia, perché porta maggior gettito fiscale per esempio. Qui prevale una logica molto diretta, una logica di breve-medio periodo che vede l’industria pesante come una delle basi solide dello sviluppo economico delle economie occidentali. Dall’altro lato, invece, destinare risorse per far uscire da condizioni di criticità e marginalità alcuni Paesi non viene visto come un investimento ma come un costo. Manca una logica di lungo periodo in base alla quale il Paese o la regione che viene supportata nel medio o lungo periodo può diventare un partner con il quale costruire una strategia di sviluppo. Sicuramente questo è più difficile e non dà frutti nel breve periodo. Il problema è che tutte le classi politiche ragionano in termini e con tempi elettorali.
Quali incentivi possono essere realmente efficaci, a vostro giudizio, per avviare una riconversione dell’industria di guerra in una industria di pace?
Serve un cambio di logica, credere che possano esistere altri ambiti che possono fornire sviluppo e prosperità, e banalmente la ricerca applicata a scopi civili è un ambito che dovrebbe essere perseguito in modo più convinto. Mentre il paradosso è che aziende che sono considerate il fiore all’occhiello dell’industria italiana sono soggette a riconversioni sempre più marcate di stampo militare. In generale purtroppo bisogna dire che andrebbe cambiato il modo di pensare delle persone. Ancora oggi le prime applicazioni tecnologiche o le avanguardie di ricerca vengono sperimentate nel campo militare non ad uso civile. È questo ancora il grande tarlo. Serve una cultura della pace.
Ci sono Paesi nel mondo che hanno scelto di investire non nelle armi ma nell’istruzione e nella ricerca scientifica, in sanità e trasporti pubblici gratuiti per le fasce deboli. È così che si combattono le diseguaglianze e le tensioni sociali, o non basta?
È un buonissimo inizio. Purtroppo però si tratta di piccoli Paesi, mentre invece servirebbe l’esempio di qualcuno dei Paesi più grandi d’Europa: se uno o due facessero questa scelta coraggiosa partirebbe una rivoluzione che contagerebbe il mondo.
Quale rapporto tra povertà, deprivazione, disuguaglianze e diffusione del terrorismo?
Sicuramente c’è una correlazione. Se poi andiamo a vedere quello che succede in alcune regioni del mondo, si può osservare che il tasso di povertà e di disuguaglianza è più marcato che in altre zone, si cresce con meno opportunità di realizzazione del proprio potenziale, la resilienza a shock improvvisi è inferiore, quindi a difficoltà economiche e restrizioni diminuisce e questo crea frustrazione e sofferenza. Queste regioni sono caratterizzate da una debolezza strutturale e questo è un ambiente favorevole per far attecchire i fondamentalismi.