Guerre: ci stiamo abituando?
Ogni giorno continuiamo a vedere scene di guerra, sempre più cruente e sempre più tragicamente normali. Infatti, senza che ce ne rendiamo conto, il mondo in questi ultimi due anni si è incamminato in un processo di presa di coscienza quasi consuetudinaria del conflitto.
Guerra è ormai una parola che fa parte del nostro linguaggio quotidiano – anche in occidente – come non avveniva da decenni, compresi quelli della cosiddetta Guerra Fredda, che oggi, vista in retrospettiva, rappresentava una garanzia per la pace. Assurdità in cui noi esseri umani riusciamo ad incanalarci come in vicoli ciechi: veri cul de sac dove ci si spinge senza possibilità di un ritorno.
Questo abituarsi alla guerra, alla sua retorica – da qualsiasi parte essa venga – e al progressivo ma sempre più invadente aggiungervi l’aggettivo nucleare, è ciò che dovrebbe preoccuparci davvero. Ma siamo preoccupati? Forse no, anche se, poi, le indagini di mercato mostrano che il tasso di paura sale col passare del tempo e con lo scendere dell’età. Le giovani generazioni, probabilmente, trovano nel termine paura la specifica più evidente e capace di meglio esprimere il loro futuro.
Ma il discorso della potenziale conflagrazione non riguarda tanto i conflitti in corso, che sempre più paiono essere le prove generali per quello che potrebbe accadere, e la strada per preparare il mondo a una guerra globale. Ciò che più mette a rischio la pace mondiale, in questo momento, è il complesso rapporto fra Stati Uniti e Cina.
I due grandi che si fronteggiano ormai da alcuni decenni su altri campi, particolarmente su quello economico-finanziario e su quello cibernetico. Dalla caduta dell’impero sovietico e l’apparente vittoria definitiva degli Usa, quasi fosse arrivata, come recitava il politologo Fukuyama, la “fine della storia”, la Cina e gli Usa hanno iniziato una crescente escalation a distanza.
Da un lato, Washington ha assistito alla crescita economica e finanziaria del dragone cinese quasi il fenomeno fosse inatteso e assolutamente inarrestabile. Le cifre parlano da sole. Nel 1995, il Pil cinese era pari a circa il 10% del Pil statunitense. Nel 2021, era cresciuto fino a circa il 75% di quello americano. Nel 1995, gli Stati Uniti realizzavano circa il 25% della produzione manifatturiera mondiale e la Cina meno del 5%. Oggi la Cina ha superato gli Stati Uniti: l’anno scorso ha prodotto quasi il 30% della produzione manifatturiera mondiale, mentre gli Stati Uniti si sono fermati al 17%.
Queste non sono le uniche cifre che riflettono l’importanza economica di un Paese, ma danno un’idea del suo peso nel mondo e indicano dove risiede la capacità di produrre, compreso l’hardware militare. Questi dati non sono casuali, sono apparsi in questi giorni in un interessante articolo riportato da International Affairs, la prestigiosa rivista di politologia pubblicata da Chatham House da oltre 100 anni, che propone un paragone fra la situazione che il mondo viveva nei decenni precedenti la I Guerra Mondiale e l’attuale panorama geopolitico.
In effetti, la crescita economica esponenziale della Cina preoccupa da tempo gli Usa, soprattutto perché il gigante asiatico è riuscito a invadere il mondo con i suoi prodotti a basso prezzo – e qualche volta di qualità medio-bassa – a tutti i livelli.
Mi trovo a Nairobi in questi giorni. La Cina è presentissima. Si trovano cantieri di grandi conglomerati di nuovi palazzi – molto simili a quelli che si vedono nella maggior parte delle megalopoli cinesi – con scritte in mandarino, o cartelloni che si riferiscono a qualche presenza della Cina nel mercato locale o ancora non poche China house, scritte in diverse parti della città.
Mi dicono che è così in tutta l’Africa e, spesso, ben più che in Kenya. Ecco. Qui sta un problema chiave. Gli Usa non erano abituati a trovare un concorrente di questo tipo. Dopo la seconda guerra mondiale hanno invaso i mercati di tutto il mondo occidentale e anche dei Paesi non controllati dal Patto di Varsavia, che hanno poi regolarmente fatto loro non appena è crollato il Muro.
Diventa insopportabile, quindi, trovarsi un concorrente che fa lo stesso e che mette ormai a repentaglio il monopolio americano a livello mondiale. Si capisce dunque perchè, soprattutto, con l’amministrazione Trump siano piovuti dazi a iosa sui prodotti cinesi pronti a entrare negli Usa, in particolare auto elettriche e prodotti che hanno a che fare con il digitale e il risparmio energetico, dazi che poi la Cina ignora. Attenzione. Non facciamoci ingannare. Il governo Biden non ha ritrattato questa politica trumpiana, se non in minima parte.
E, infine, esiste la possibilità della scintilla che può fare scoppiare il grande conflitto. Cento anni fa, furono i Balcani (1914), oggi potrebbe essere Taiwan. La Cina ha assistito nel corso dei decenni post Guerra Fredda all’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan da parte delle truppe americane, in nome della difesa dei diritti umani e contro dittatori o il paventato pericolo dell’islamismo. Gli Usa, che si dicono paladini dei diritti internazionali, non hanno osservato la sovranità di questi ed altri stati.
Questa è una minaccia per la Cina, come lo è stato il progressivo avanzare della Nato in Europa verso l’area di influenza russa, che ha innescato la scintilla per una invasione dell’Ucraina nel nome della difesa della Russia minacciata dall’Occidente.
In Oriente potrebbe succedere lo stesso con Taiwan, che gli Usa difendono come baluardo contro la Cina popolare, che, da sempre, ritiene l’isola come sua parte naturale e integrante. Insomma, ci sono tutti gli elementi per un vero pericolo globale di guerra.
Le guerre che vediamo e viviamo oggi potrebbero essere solo dei passi di avvicinamento al grande e irrimediabile conflitto. Sta anche a ciascuno di noi rifiutare di abituarsi alla guerra.