Guerra in Ucraina, “la speranza siamo noi”

A Dnipro in queste ore si sta organizzando la resistenza civile: le persone, civili, stanno imparando a usare le armi, a costruire trincee, molotov, barricate. Donne e bambini fuggono solo con i vestiti che hanno addosso. Mariupol è sotto assedio. Le linee difensive sono state sfondate.
Guerra in Ucraina, una donna con il figlio nel rifugio antiaereo dell'ospedale pediatrico Okhmadet nel centro di Kie, foto Ap.

È difficile oggi svegliarsi e provare a fare silenzio rispetto a quanto sta accadendo a due passi da noi, con la guerra in Ucraina. I pensieri si affollano. Ciò che misuriamo in questi giorni, è tutta l’inadeguatezza e il disagio nel continuare a vivere la quotidianità e la normalità delle giornate. Come uomini, donne, genitori, giornalisti, ricercatori impegnati. Il cuore è pesante. La gola è strozzata.

Il pensiero continua ad andare a quelle sorelle-madri e ai loro bambini. Figli loro, ma anche figli nostri. A chi di loro fugge. A chi li affida a degli sconosciuti pur di portarli in salvo, oltre il confine. A chi rimane, chiuso, sottoterra da giorni. Una paura folle, che, sappiamo, lascerà il posto alla fatica, alla disperazione.

È faticoso ascoltare le notizie, perché un presagio dice che saranno ancora quelle e probabilmente peggiori. È difficile guardare le immagini, stando comodi sulla propria sedia, nella propria stanza. Non ci sono parole adeguate, non si trovano. La nostra voce si spezza. E immediatamente un pensiero pieno di gratitudine corre subito agli amici e colleghi rimasti per raccontare.

È difficile addormentarsi sapendo cosa sta accadendo a pochi chilometri dalla nostra terra: una guerra che si raggiunge in autobus, in macchina, mentre nella notte c’è chi sta partendo dall’Italia per raggiungere quei confini. È difficile mantenere la lucidità nella propria capacità di analisi e provare ad interrogarsi sulla storia, sulle cause, sulle strategie, sugli attori.

Una giornalista che parlava dal confine con la Polonia oggi ha detto che la solidarietà è contagiosa. Che i gesti di aiuto si stanno moltiplicando. Piccoli, grandi. Colpisce ascoltare quella frase, detta da una giornalista, rimasta in mezzo ad una guerra. La sentiamo arrivare come un lumicino che si fa strada nella notte. Come a dire che non tutto è perduto, anche nel buio dei sotterranei. Come vorremo allungare le braccia e stringere la mano di chi sta da quella parte, e tirarla dalla nostra, di parte, al sicuro, noi che stiamo comodi e tranquilli.

Il presidente russo Vladimir Putin mentre si rivolge alla nazione annunciando l’attacco all’Ucraina, foto Ap.

Scorrono le immagini di ciò che sta accadendo nelle piazze, in Russia. Più di 6000 fermi e incarcerazioni. Ancora non riusciamo a tracciare una linea che unisca i punti, ma qualcosa sta accadendo anche lì. Putin avverte che l’opinione pubblica lo sta lasciando. Conosciamo molto bene la difficoltà che colleghi e ricercatori di Mosca incontrano nel prendere posizione. È pericoloso. Eppure un gruppo di ricercatori e giornalisti scientifici russi ha scritto una lettera aperta di condanna dell’aggressione militare. E una minoranza dell’oligarchia russa, colpita dalle sanzioni economiche, inizia a prendere posizione contro la guerra.

Riecheggia la frase di David Sassoli (quanto ci manca la sua voce oggi in Europa!), quasi per tenerla con noi per la giornata di oggi, stretta, a nutrire un sentimento di speranza che fa fatica a farsi strada “La speranza siamo noi quando non alziamo muri ai nostri confini”. La speranza siamo noi… è difficile, a volte, crederlo. Ma è vero: siamo noi, in mezzo a tutti quei muri disumani, che possiamo scegliere di non tracciarli.

Questa non è la guerra del popolo russo. Questa è la guerra di un leader che, purtroppo, è accecato di follia, è isolato e solo. E che, nel suo disegno diabolico, chiama questa guerra “un’operazione militare speciale”, quando di speciale non ha proprio nulla. Sul lato umano, etico e morale. E anche sul piano del diritto internazionale: si tratta di una vera e propria aggressione in aperta violazione del diritto internazionale.

Non esiste un casus belli, se non quello di concepire l’esistenza dell’Ucraina solo all’interno della Russia e sotto il controllo russo. “L’Ucraina non esiste se non all’interno della Russia”, aveva detto Putin nel suo discorso di luglio sotto il titolo “Sull’unità storica di russi e ucraini”, dove già emergeva con tutta la sua forza il mito del panslavismo, della “Terza Roma” cristiano-ortodossa, dell’unità linguistica e la volontà di controllo dei territori limitrofi.

Il presidente dell’Ucraina, Zelensky, foto Ap.

Un leader ossessionato dall’idea di ritrovare appena fuori dai propri confini una nazione europea. Una Nazione che l’altro giorno ha formalizzato la richiesta di adesione all’Unione Europea, in un appello disperato del presidente Zelensky in collegamento con il Parlamento europeo sull’accelerazione delle procedure. “Non lasciateci soli”. Ed è sempre di martedì la decisione per cui per la prima volta in assoluto l’Unione europea finanzierà l’acquisto e la consegna di armi ed equipaggi per un Paese terzo sotto attacco.

Siamo in una fase di escalation: verbale (le parole scelte dai leader coinvolti lo evidenziano), politica (i gesti politici e simbolici sono molto forti e si moltiplicano – ieri alla Conferenza sul disarmo a Ginevra quasi tutte le delegazioni presenti hanno voltato le spalle e lasciato l’aula quando il ministro degli Esteri russo ha parlato, in collegamento). E militare: la strategia di Mosca sembra quella di chiudere in una morsa Kiev e le principali città per ammorbidire la posizione ucraina nei negoziati, che non sono nemmeno avvenuti in una fase di “cessate il fuoco”.

Lo scenario è molto complesso, la diplomazia si sta muovendo, con grosse difficoltà. Ma si sta muovendo. Ci hanno impressionato le immagini dei satelliti spia che l’intelligence americana ha de-secretato per favorire la massima cooperazione internazionale: una lunga fila di mezzi militari russi che avanza, 64 km, portando con sé un presagio di morte. Quello di una guerra premeditata, cresciuta su un terreno incandescente, in un clima in cui anche il mondo occidentale non è privo di responsabilità.

 

 

 

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