Guatemala e Usa, un accordo spietato
Bisogna essere privi di scrupoli o di buon senso, o magari di entrambe le cose, per firmare il patto siglato dal presidente del Guatemala, Jimmy Morales, e il presidente Usa, Donald Trump. È difficile trovare un’altra risposta a quanto disposto dal documento, di cui ancora si conosce poco, ma che in sintesi dispone che i migranti che chiedano asilo politico negli Usa e che siano passati dal Guatemala, fondamentalmente provenienti da Honduras ed El Salvador, potranno essere rispediti il territorio guatemalteco considerato “Paese terzo sicuro”. Un po’ come se il porto di Tripoli venisse considerato “sicuro”.
Più della metà dei migranti che cercano di fare ingresso negli Usa dalla frontiera sud – circa 100 mila al mese in questi momenti –, provengono da Guatemala, Honduras ed El Salvador. A suo tempo, abbiamo sottolineato che questo flusso è determinato dalla violenza e dall’estrema povertà della regione, nota come “triangolo nord” dell’America Centrale, ossia, l’area più pericolosa nel mondo. Decine di migliaia di persone affrontano un viaggio rischioso, spesso mortale, pur di fuggire dalle bande criminali che spadroneggiano in questi Paesi, che uno Stato spesso inefficiente o, peggio, complice, non riesce a proteggere. Gran parte di queste bande sono composte da ex paramilitari che intervennero durante decenni nei conflitti civili di questi Paesi, oggi dedite al narcotraffico, la tratta di persone, e a spadroneggiare avvalendosi dell’assenza dello Stato.
Il Guatemala non sfugge a questa situazione. Il suo presidente si mantiene al potere grazie ai nostalgici della dittatura militare e ad una oligarchia industriale che trae vantaggi da queste situazioni, e per farlo ha stravolto le disposizioni costituzionali in materia di lotta alla corruzione, in quanto accusato di finanziamenti illegali, neutralizzando l’organismo preposto a tali controlli. Nel frattempo, mentre la gestione di Morales non ha fatto granché per offrire migliori condizioni di vita, negli ultimi anni 600 mila guatemaltechi sono entrati illegalmente negli Usa. Fuggono dall’elevata mortalità infantile: quasi 25 neonati muoiono nel Paese ogni mille nascite. Quasi il 47% dei minori di cinque anni presentano alti indici di denutrizione, tra i più alti nel mondo. Mancano 1,8 milioni di case per offrire dove vivere a chi forma una famiglia. Il 69% della forza lavoro si dedica all’economia sommersa e quando analizziamo le comunità indigene tale percentuale scatta all’80%.
I numeri dicono che questo Paese non può ricevere decine di migliaia di migranti illegali rifiutati dagli Stati Uniti, anche perché non possiede una struttura di accoglienza. Ma qui ha pesato la determinazione di Trump di frenare, non importa come, il flusso di migranti provenienti dal Messico e dall’America Centrale, alla quale “morale” Morales non poteva opporsi. È bastata la solita minaccia di ritorsioni commerciali, perché gli industriali guatemaltechi facessero quadrato attorno al presidente affinché accettasse di firmare quanto stabilito dalla Casa Bianca. Si ripete quanto avvenuto a suo tempo col trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Guatemala, Honduras e Paraguay furono i primi governi ad aderire «entusiasti» all’iniziativa. Prendono forma qui le parole dell’ideologo della politica estera sotto il governo di George W. Bush, Zbigniew Brzezinski, che parlava di «vassalli e tributari… ansiosi di legarsi a Washington mediante legami più formali».
Il procuratore guatemalteco per i diritti umani ha posto la questione alla Corte Costituzionale. Morales ha scavalcato il parlamento per firmare questo patto spietato. Un tribunale federale nordamericano ha sollevato la questione più evidente: il Guatemala non può essere considerato alla stregua degli Stati Uniti per coloro che chiedono asilo politico. Nel frattempo, in assenza di più massicce azioni delle rispettive società civili, il prezzo più alto lo pagheranno i poveracci che si vedranno spediti con la forza in Guatemala.