Guatemala mite e violento
Mi apre la porta metallica della sua stanza nel seminario maggiore del Guatemala, nel nord della capitale, con movimenti lenti e calibrati. M’appare un uomo sorridente, dai grandi incisivi su una dentizione precaria, basette e sopracciglia folte, capelli appena un po’ scarmigliati. Padre Vidal in realtà si chiama Vitale Traina, è torinese, dal 1969 fidei donum in Guatemala, cioè donato dalla diocesi della Sindone all’allora Chiesa guatemalteca che abbisognava di pastori: «Il presidente-dittatore Barrios aveva cacciato dal Paese preti e religiosi – mi spiega padre Vidal –, e solo da un paio d’anni cominciavano a rientrare francescani, domenicani e sacerdoti diocesani. Ma erano solo 120 per una nazione cattolicissima e ricca di migliaia di parrocchie». Così fu assegnato ad una zona remota del Paese, a Chiato, dove aveva ricevuto in eredità un territorio immenso, oggi suddiviso in una decina di parrocchie, ognuna con 30 mila fedeli almeno. Aveva 33 anni, era pieno di vita e di voglia di evangelizzare.
La guerra civile L’analisi storica di padre Vidal m’affascina. Parla lentamente, cerca di trovar le parole giuste per non offendere nessuno, nemmeno il peggior carnefice, e per sintetizzare sapientemente decenni in poche spiegazioni. Mi spiega così il presente: «La situazione sociale e politica è molto complessa – mi spiega –, perché come in tutta l’America Latina, o quasi, stiamo ancora vivendo il passaggio dalla dittatura alla democrazia. Stiamo imparando i rudimenti della democrazia. E abbiamo vissuto un periodo rivoluzionario, in particolare qui in Guatemala ma anche altrove, in cui il marxismo ha fatto breccia tra popolazioni intellettualmente non preparate, tra popoli in fondo pacifici, i cui giovani sono stati inviati ad addestrarsi a Cuba, in Ungheria o in Polonia, mentre nell’esercito venivano arruolati a forza altri indigeni. Si sono trovati così a lottare indigeni contro indigeni, presi in mezzo tra una dittatura sostenuta dagli Usa e una rivoluzione sostenuta invece dall’Urss».
Il genocidio indigeno 600 paesi rasi al suolo, abitanti compresi, 100 mila morti ufficiali ma probabilmente oltre il doppio, distruzione di centinaia di scuole e di ospedali negli altipiani guatemaltechi… Chiedo a padre Vidal se si possa parlare di genocidio contro gli indigeni di discendenza maya: «Sì, se ne può parlare senza tema di smentita. I dittatori erano ignoranti, mentre i capi della guerriglia erano fuori dal Paese. Qui c’era carne da macello che veniva catturata e giustiziata senza nessun processo, sistematicamente. Se delle donne di campagna analfabete avevano cucinato del caldo de gallina, obbligate dai rivoluzionari che transitavano in un paese, il giorno seguente l’esercito le assassinava accusandole di collaborazionismo! Ho saputo di tanti e tanti villaggi rasi al suolo in questo modo: venivano passati per le armi tutti gli uomini, i cui cadaveri venivano ammucchiati nella piazza di terra del villaggio. Le donne, con in braccio o alla mano i loro figli, dovevano girare attorno al mucchio dei loro mariti e figli maschi per un giorno intero, senza sosta, fino a crollare sfinite. Allora intervenivano i caterpillar che spianavano tutto: capanne, case, uomini morti e donne vive. Terribile».
I martiri In Vaticano è in corso uno studio per capire se si può canonizzare come martiri perlomeno alcuni degli 800 catechisti e delle decine di preti, religiosi e religiose uccisi per la loro fede. La Chiesa cattolica, infatti, era stata bollata come rivoluzionaria dai dittatori, in particolare da Rios Mont, che era evangelico, semplicemente perché essa mirava a cambiare il mondo, a renderlo più giusto e vivibile. «Nel 1996 fu assassinato mons. Juan Gerardi – riprende padre Vidal –, col quale avevo collaborato per due anni, che era stato il promotore di una ricerca accurata, che aveva coinvolto 600 ricercatori e che era stata pubblicata col titolo: Guatemala Nunca Màs. Vi si raccontavano i soprusi, le ruberie, gli assassini, il genocidio degli indigeni da parte della dittatura. Guarda caso, tre giorni dopo la presentazione della ricerca il mio amico vescovo è stato assassinato».
La minaccia del narcotraffico Il cambiamento, terminato nel 1996, era iniziato già all’inizio degli anni Novanta, ma oggi trova enormi difficoltà nella impensabile corruzione che attraversa la classe politica, interessata soprattutto all’arricchimento personale e solo in seconda battuta al bene comune della popolazione. Le infrastrutture messe in opera sono pochissime e così lo sviluppo di nuove fonti di lavoro. Anche la magistratura lascia a desiderare, visto che il 90 per cento dei delitti rimane impunito. Ogni giorno in Guatemala vi sono una ventina di assassinii, più o meno le stesse cifre quotidiane dei tempi della guerra civile. E l’influenza nefasta del narcotraffico – soprattutto con la vicina regione messicana del Chiapas e con la più lontana Colombia – è in crescita esponenziale.
«Nonostante tutto – prosegue padre Vidal – il Guatemala avanza, grazie soprattutto a due fattori: l’istruzione, che comunque fa progressi anche e soprattutto grazie alla Chiesa cattolica, e alla presenza costante degli Usa e delle sue multinazionali che, comunque, hanno fatto alzare i salari. Non bisogna guardar male la presenza di tre milioni di guatemaltechi (sui 15 milioni totali) nel Paese a stelle e strisce: le loro rimesse sostengono le famiglie, portano auto e altri mezzi di comunicazione, aggiungono un po’ di speranza nel futuro ad un presente cupo. Certo, il consumismo avanza, il relativismo pure, ma comunque si va avanti».
Il lavoro della Chiesa Uno dei massimi problemi del Paese è l’urbanizzazione, sostanzialmente indirizzata verso Ciudad de Guatemala, che in 20 anni è quintuplicata, raggiungendo oggi i 4 milioni di abitanti, sei con l’hinterland. «La Chiesa cattolica dovrebbe aprire cento parrocchie nelle nuove periferie, dove arrivano contadini con le loro famiglie, gente che avrebbe una fede semplice ma profonda, come testimoniano le tantissime processioni della Settimana Santa, che coinvolgono direttamente nella loro preparazione non meno di mezzo milione di persone, in tutto il Paese. Qui in Guatemala, poi, si sono fatti strada tanti movimenti cattolici che hanno certamente una forte influenza spirituale sulla popolazione e sui singoli, laicizzando positivamente la Chiesa, ma nel contempo senza ancora una reale influenza sul tessuto sociale del Paese».
Lo stesso tessuto familiare lascia molto a desiderare, visto che spesso e volentieri le famiglie si sfasciano perché uno dei partner se ne va a convivere con un altro uomo o un’altra donna, molto spesso anche con problemi di alcolismo. Con la massima facilità. Il 29 per cento dei bambini che nascono non hanno un padre. E la sessualità subisce un’opera di banalizzazione sistematica.
«Solo il Vangelo può cambiare radicalmente le cose – conclude padre Vidal –. La Chiesa deve aver coraggio e porsi come segno di contraddizione. Segno di crescita umana, spirituale, globale».