Guardando Cézanne
Era un autunno piovoso, quello del 1907 a Parigi. Le nuvole tormentavano il cielo con cupe tonalità grige e il freddo precoce e la pioggia contribuivano a predisporre gli animi alla malinconia. Anche il poeta praghese Rainer Maria Rilke, che trascorreva nella capitale francese un breve soggiorno, si sentiva un po’ giù di corda. Nella stanzetta dell’hotel pativa il freddo e scriveva lettere non troppo allegre alla moglie. Ma niente di più. Non riusciva a lavorare. Finché – come spesso accade nella vita – proprio quando meno se l’aspettava s’imbatté in qualcosa che cambiò la sua vita. La sua vita artistica, perlomeno; ma per lui era la stessa cosa, tutta la sua vita era unita imprescindibilmente all’arte. S’apriva, in quell’autunno parigino, la prima grande retrospettiva dell’opera di Cézanne, il pittore provenzale morto l’anno precedente. Rilke si recò all’esibizione e” come colpito da un fulmine, rimase letteralmente folgorato da quei quadri. Giorno dopo giorno ritornò al museo, soffermandosi per ore davanti a quelle tele e raccogliendo le sue considerazioni in lettere alla moglie Clara. Fu così che nacquero le celebri Lettere su Cézanne. Rilke, entrando sempre più in profondità nell’universo di quelle opere, scoprì la conversione avvenuta in Cézanne, da quando il pittore aveva deciso di lasciare l’ambiente bohémien parigino per ritornare nella sua Aix-en-Provence e dipingere secondo i dettami che la sua coscienza artistica aveva intuito. Il Vecchio, così lo soprannominava Rilke, si mise a lavorare con una assiduità quasi feroce. Non aveva soldi per pagare modelle: dipingeva allora vasi di frutta, bottiglie di vino, qualche contadino, la campagna e le montagne vicino alla sua casa. I ragazzini del villaggio si burlavano delle sue stravaganze e gli tiravano pietre quando passava. Ma lui non si curava più degli altri: era tutto concentrato sul suo lavoro al quale rimaneva fedele come alla messa domenicale a cui mai mancava. Ma cosa aveva scoperto Cézanne? Aveva imparato a guardare. A guardare alla realtà per quella che è, alle cose per quello che sono, senza giudicarle; senza intrappolarle nei condizionamenti dell’immaginazione o di idee preconcette. Ad entrare nelle cose per cogliere, attraverso le forme, la luce e i colori, il mistero della loro vita che, come in tutte le realtà viventi, porta dentro di sé anche la morte. Come un cane – scriveva Rilke – Cézanne restava seduto là davanti e semplicemente guardava. Questo gli permise di dipingere le sue famose mele, delle quali Picasso diceva che diventavano interessanti proprio perché in ognuna di esse si poteva cogliere il tormento del loro autore per carpirne la vita e farla diventare arte. Questo gli permise di dipingere incredibili paesaggi come la Montagna Sainte-Victoire, della quale Rilke diceva che nessuno, dai tempi di Mosè, aveva guardato ad una montagna in modo tanto maestoso. Rilke si sentì perentoriamente confrontato dall’opera di Cézanne. Comprese che imponeva anche a lui una conversione artistica. Egli era già un poeta affermato, espressivamente potente, con una padronanza così sovrana del linguaggio, che lo portava a fagocitare nella sua dimensione poetica qualsiasi oggetto: anche quando sembrava rispettarlo nella sua alterità, in realtà lo assumeva e lo trasformava. Con la vista dei quadri di Cézanne egli comprese che la sua poesia, da quel momento in poi, doveva cambiare rotta e accettare il rispetto di ciò che è altro da sé, della presenza evidente della realtà nella sua insondabile autonomia. Trovandosi così in sintonia con ciò che avrebbe poi scritto Simone Weil: Acconsentire all’esistenza dell’universo, è la nostra funzione quaggiù. Dio non si accontenta di riconoscere buona la sua creazione. Egli vuole che essa stessa si riconosca come buona. Questo diventa perciò, secondo Rilke, il compito dell’artista: accogliere la creazione come qualcosa al di fuori di sé, penetrare nella sua diversità fino a diventare una cosa sola con essa, al punto di scoprire il segreto che la fa riconoscere buona; e quindi rappresentarlo. Ma per compiere questa trasformazione l’artista deve essere spinto da una profonda vocazione. E sul tema della vocazione, Rilke riflette a lungo scrivendo brani affascinanti. Egli, rifacendosi al significato del termine, la intende – in ogni ambito – come una chiamata radicale che richiede una corrispondenza radicale. In questo senso il poeta praghese non concepisce la vocazione artistica in modo diverso dalla vocazione religiosa come è presentata, in pagine stupende, dalla Bibbia. Il piccolo Samuele, ad esempio, che si sveglia di soprassalto dal sonno, nel cuore della notte, alla voce dell’Eterno che lo chiama; o il giovane Eliseo che brucia il giogo dei buoi con cui stava arando e saluta gli amici con un improvvisato banchetto per seguire il misterioso Elia che, gettandogli sulle spalle il proprio mantello, lo chiama a diventare profeta; o Pietro, Andrea che lasciano le reti con cui pescavano per seguire il Messia che passando li chiama” Sulla loro scia, con le dovute proporzioni, c’è pure Cézanne che, a un certo punto della sua vita, decide di lasciare Parigi e il mondo artistico in cui viveva per ritornare in Provenza e dedicarsi in solitudine a dipingere la realtà secondo la visione nuova che gli era scaturita nell’anima e verso al quale si sentiva vincolato come da un obbligo. Rilke presenta nelle pagine delle Lettere su Cézanne in modo semplice quanto struggente anche la vocazione di un altro pittore: Van Gogh. Il quale sulle prime è convinto che scopo della sua vita sia di dedicarsi totalitariamente all’attività missionaria tra i poveri minatori e poi, sempre spinto dalla stessa ardente passione, si dedica anima e corpo alla pittura intuendo la bellezza della po- vertà (un paio di vecchie scarpe, una sedia di paglia, qualche girasole”) per trasformarla in arte. Ricordando così che la vocazione è sempre una chiamata, che spesso si comprende strada facendo, procedendo con fedeltà nel cammino intrapreso; che talvolta non coincide con le scelte di vita che momentaneamente paiono giuste; che in alcuni casi sembra quasi cozzare con le proprie inclinazioni naturali. Rilke era convinto che l’artista debba possedere in sommo grado il senso di lavorare per qualcosa che lo trascende e che dall’alto lo comanda. E aveva già anticipato splendidamente qualcosa di queste intuizioni – che poi maturerà dall’incontro con Cézanne – in una lettera nella quale, rispondendo a un giovane scrittore che chiedeva consigli, lasciava un messaggio che rimane fondamentale per ogni tipo di vocazione. Scriveva: Nessuno vi può consigliare e aiutare, nessuno. C’è una sola via. Penetrate in voi stesso. Ricercate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate se essa estenda le sue radici nel più profondo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere. Questo anzitutto: domandatevi nell’ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere? Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta. E se questa dovesse suonare consenso, se v’è concesso affrontare questa grave domanda con un semplice e forte debbo, allora edificate la vostra vita secondo questa necessità.