Grecia, un anno dopo il referendum c’è ancora crisi

Costato cento miliardi, ha lasciato il popolo più umiliato e frustrato. La disoccupazione è ai massimi storici, le imprese continuano a chiudere e negli ospedali si può essere operati solo portando materiale medico e lenzuola pulite. Ma qualcosa unisce la protesta dei greci e quella dei britannici e le istituzioni europee dovrebbero rendersene conto. Dalla nostra corrispondente
Bandiera Unione europea e bandiera della Grecia

È passato un anno da quella strana notte in cui la gente festeggiava in piazza della Costituzione ad Atene per il 61,3 per cento ricevuto dall’orgoglioso "no". Ma "no" a cosa? Nessuno lo capiva esattamente. Per il popolo il "no" si referiva al programma di salvataggio proposto dai creditori, che era molto oneroso. Ma per i creditori era un "no" all’Unione europea e all’euro.

 

Al termine di una sessione-maratona a Bruxelles, Alexīs Tsipras era stato costretto poi ad accettare un terzo piano di salvataggio, che assomigliava più a un ricatto a cui il premier aveva dovuto cedere per evitare la distruzione totale del Paese, già sommerso dai debiti, e l’isolamento. In sostanza, il Paese ha pagato caro il tatticismo di Varoufakis, ministro delle Finanze a quel tempo, e ovviamente del governo, e il ritardo che hanno provocato al negoziato.

 

Il governo aveva diritto di negoziare, specialmente quando gli avevano fatto sapere che c’era un piano Grexit (per l'uscita della Grecia dall'Unione europea) sul tavolo, ma quello di cui non ci si è resi conto in quel momento era che per un negoziato effettivo ci sarebbero voluti unità interna, esperienza, alleanze e, più di tutto, il potenziale per farlo, cioè la capacità di permetterselo. Certamente l’opportunismo che il governo ha dimostrato non era la via più appropriata.

 

Il ritardo nel negoziato provocato dal referendum e i ritardi causati dai rimpasti di governo e dalle elezioni anticipate vennero pagati e continuano ad essere pagati dal popolo: ormai il 57 per cento di stipendi, pensioni ed entrate vanno in contributi e tasse, un terzo della popolazione vive in condizioni di estrema povertà, la gente tra i 25 e i 45 anni cerca una via di fuga all’estero, le imprese cercano di ristabilirsi fuori dal Paese, la disoccupazione arriva al 27 per cento, e tra i giovani al 60 per cento, e solo nel primo semestre del 2016 si sono persi 842.670 posti di lavoro e sono state chiuse 15.409 aziende. Perfino le grandi industrie vanno in bancarotta con conseguenze a catena per l’economia e la società. Gli ospedali quasi non funzionano: per poter essere operati bisogna portare non solo il materiale medico necessario, ma anche le lenzuola.

 

Ci si chiede se a queste condizioni si possa sperare in un futuro migliore e se l’Ue possa capire che la massima austerità non è la soluzione appropriata. Ci si chiede se l'Unione europea riuscirà a capire che sia il referendun greco che quello inglese, che ha portato alla Brexit, nonostrante le loro differenze, trasmettono un messaggio: che non è possibile che tutto sia giudicato in base ai soli numeri e che i popoli hanno diritto di vivere con dignità e non di sopravvivere con difficoltà. Ci si chiede se le istituzioni europee possano dare una risposta chiara e condivisa sul tipo di Unione che vogliono. Ci si chiede se sia i governi nazionali che l’Ue possano capire che nei divorzi politici le responsibilità sono comuni e che questi divorzi distruggono la famiglia europea.

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