Quando la scuola c’è
“Pronto Diletta…”. “Mamma una tragedia! Mi sento male, mi viene da vomitare, ti prego vieni a prendermi”. “Dile che è successo? Cosa può giustificare tutta questa agitazione?”. Pianto. “Credo che sia morto”. “Dile ma che dici? Chi è morto?”.
“Lo schianto, fortissimo, a pochi metri dal cancello di scuola e l’inutile corsa in ospedale. E’ morto così F.G., 15 anni, travolto dall’auto di un compagno di scuola mentre usciva dall’istituto tecnico agrario della Prenestina, alla periferia Est di Roma. A provocare l’incidente uno studente di 18 anni che, risultato positivo al narco-test, è stato arrestato in serata. Il giovane fresco di patente, che frequenta la stessa scuola della vittima, è accusato di omicidio stradale. Inoltre l’auto era sprovvista di assicurazione” (“La Repubblica”, 22 dicembre 2017).
Quella volta non è stato solo un articolo di giornale. Quella maledetta mattina Diletta era lì. Pochi metri la separavano da quel compagno di scuola; quei pochi metri hanno inesorabilmente decretato chi, quel giorno, sarebbe tornato a casa e chi non sarebbe tornato mai più.
“Mamma era tutto coperto di sangue, non lo riconoscevo… La macchina stava avanti avanti e lui tanto indietro… Mamma, la macchina era distrutta… Erano volate le scarpe e la cassa che aveva in mano per ascoltare la musica… Un suo compagno piangeva e diceva che voleva levargli lo zaino perché dietro la schiena gli poteva fare male… Ma chi avrà chiamato i genitori? Come gliel’hanno detto? Mamma, ti immagini se quella mattina magari avevano discusso e si sono lasciati arrabbiati senza nemmeno salutarsi? Mamma, ti rendi conto che al suo posto potevo esserci io? O Luna? O Michael? Mamma…. Mamma… Mamma”.
Io non avevo risposte. Di fronte a quella devastazione mi sono trovata disarmata.
Nei giorni successivi è stato un continuo alternarsi di notizie sui giornali, messaggi tra compagni, tra genitori e una strana adrenalina ci ha come anestetizzati.
Poi è arrivato il silenzio e le domande si sono riaffacciate prepotenti in me.
Diletta ha continuato a rimanere in silenzio.
Non mi sentivo in grado di affrontare l’argomento e non le chiesto più niente. Sapevo di non poterle dare le risposte di cui aveva bisogno e vigliaccamente ho aspettato.
Poi, il primo giorno al rientro dalle vacanze, sono andata a prenderla a scuola: “Mamma – mi ha detto – oggi per tre ore abbiamo avuto una psicologa in classe a nostra disposizione per parlare di quello che a successo a F”. “Davvero? Che bella iniziativa. E cosa vi ha detto?”. “Senti, mamma, non puoi pretendere che ora ti riassuma tre ore di conversazione, ma posso dirti quello che penso io adesso”. “Ne sarei felice”. “Intanto, chi era coinvolto in modo più profondo, perché legato da un rapporto da amicizia, ha seguito un percorso diverso da tutti noi che avevamo solo un rapporto di conoscenza. La dottoressa ci ha fatto riflettere sulla rabbia che provavamo nei confronti di M. per aver messo fine in quel modo tragico alla vita di un ragazzo di soli 15 anni, che potevamo essere ognuno di noi. Insomma, mamma, noi abbiamo cercato a tutti i costi un colpevole su cui scaricare la nostra rabbia, la nostra paura, le nostre domande senza risposta. Non che lui non sia colpevole, per carità, e pagherà di fronte alla giustizia, ma dopo questa chiacchierata ho riflettuto sul fatto che le vittime in questa storia sono due, non una sola come pensavo prima: F., che non c’è più, e M., vittima di una famiglia forse assente, di una società che non l’ha mai considerato, di una periferia abbandonata. Oggi penso che se lo potessi incontrare non gli direi che mi fa schifo per quello che ha fatto ma gli chiederei come si sente. Il peso di quello che è successo sarà per lui una condanna a vita, ma deve essere aiutato”.
L’ho ringraziata e le ho detto che quelle riflessioni mi sembravano davvero molto profonde e che non so se io sarei mai arrivata a queste conclusioni.
Non ho fatto altre domande, per ora, ma l’impressione è che queste tre ore siano state come una manna dal cielo.
Questa è la buona scuola. Questa è una scuola che funziona. I nostri figli non sono stati abbandonati. Li stanno accompagnando e, accompagnando loro, stanno accompagnano anche noi genitori. Hanno accompagnato me che, forse, per paura di non avere le risposte giuste, avrei lasciato a mia figlia la responsabilità di fare i conti con una cosa tanto grande.
Grazie a tutti i presidi, i professori e gli psicologi che credono nel loro lavoro, che credono nel futuro, che credono che i nostri figli possono essere migliori e che possono esserlo grazie al loro aiuto.