Grazie Liliana Segre!
Dentro la tensostruttura tirata su per l’occasione, tacciono tutti − circa 500 persone − davanti a lei. Sono venuti qui, a Rondine, in questo piccolo borgo medievale affacciato sulle sponde dell’Arno, in provincia di Arezzo, solo per ascoltare Liliana Segre. Per raccogliere le parole di quella figura bianca sul palco, fragile e forte insieme, circondata dallo sfondo giallo di un grande schermo, su cui campeggia la scritta: “Grazie Liliana!”. In prima fila, ci sono le più alte autorità dello Stato e della Chiesa italiana − Conte, Casellati, Fico, Azzolina, Di Maio, per citarne solo alcuni, il cardinale Bassetti − ci sono i rappresentanti della società civile, delle associazioni e dei movimenti, che fanno parte del “Comitato Promotore dell’evento pubblico per Liliana Segre”.
La senatrice Liliana Segre ringrazia cortesemente tutti, comprende che «in ognuno di loro c’è una grande buona volontà oggi di essere qui», malgrado gli impegni di governo, malgrado la pandemia. Ma non sono loro, gli “adulti”, i destinatari prediletti del suo racconto, della sua testimonianza, i protagonisti con lei di quella giornata. «Da nonna, come io sono per fortuna, sono i ragazzi quelli che io ringrazio – spiega −, quelli che vedo e che so che mi vedono e che io non vedo. Sono tutti quei miei nipoti ideali, come non mi stanco mai di dire quando racconto la mia storia. Una nonna incredula e a volte incapace di stare così vicino profondamente, con struggimento, senza lacrime ormai da tanti anni, a quella ragazzina che ero io».
Così, la Segre si rivolge ai giovani di Rondine, provenienti da Paesi in conflitto e che proprio nella Cittadella della Pace, fondata nel 1988, imparano a convivere, superando i conflitti e impegnandosi a diventare nuovi leader di pace per i loro popoli. E si rivolge virtualmente anche agli studenti delle scuole italiane, collegati grazie al web, e ai giovani di tutto il mondo. A loro, consegna la sua storia, il suo travaglio, la sua vita di bambina travolta dagli orrori dell’Olocausto, che comincia in un giorno di settembre del 1938, quando d’improvviso, diventa “l’altra”, una diversa: «E quando uno o una diventa l’altro o l’altra, c’è tutto un mondo intorno che ti considera diversa. E questa cosa non è finita lì, non è stato per un periodo storico, ma è durato sempre. Io sono sempre l’altra: so che quando le mie amiche parlano di me, aggiungono sempre “la mia amica ebrea”».
Ripercorre i “perché” della piccola Liliana, le sensazioni, come quella orribile di sentirsi “invisibile” agli occhi degli altri: «Se qualcuno legge a fondo le leggi razziali fasciste, una delle cose più crudeli è stato far sentire invisibili i bambini. Molti miei compagni non si accorsero che il mio banco era vuoto, solo tre». E poi, la paura che entra nella sua famiglia, le sospensioni, il tentativo di fuga con il padre in Svizzera, nel dicembre del 1943, e il “respingimento” per il troppo zelo di un ufficiale che li tratta con disprezzo. Commenta: «Ci riaccompagnarono là col fucile e la baionetta e ridevano di noi. Io sono stata clandestina sulle montagne, io sono stata una richiedente asilo, perché di qua si moriva, e so cosa vuol dire essere stata respinta… sono dei passaggi delle nostre vite così importanti perché si può essere respinti in tanti modi… quello era un respingimento causato da un uomo che obbediva agli ordini».
Si snoda così il suo racconto con continui riferimenti dal passato al presente, attraversando la prigionia, la disumanità delle persone che facevano finta di non vedere, e l’umanità dei detenuti di San Vittore che, soli, dimostrarono solidarietà e pietà ai deportati destinati ad Auschwitz, lanciando dalle finestre mele, arance, sciarpe e anche benedizioni. Poi, il treno, il pianto, la disperazione, infine il silenzio e l’inferno del lager. «Eravamo delle dannate condannate a delle pene, ma senza contrappasso» racconta riferendosi all’Inferno dantesco. Ricorda la babele delle lingue all’arrivo, le persone trasformate in numeri (il suo era 75190), la selezione, la separazione dal padre, la morte di tante, ancora la paura e l’indifferenza tra le prigioniere: «Quando non si ha niente, è difficile formare amicizie perché la paura di ognuno fa sì che pian piano tu diventi ciò che i tuoi aguzzini vogliono: disumana. Era difficile fare amicizia anche perché avevamo il terrore di perdere l’amico». E rispetto a questa indifferenza la Segre mette in guardia i giovani, raccontando un episodio. Durante l’ultima delle selezioni che Liliana Segre subì (furono tre) e che passò, era seguita da Janine, una ragazza francese, bionda con gli occhi celesti, una voce dolce. Era la sua referente nella fabbrica di munizioni in cui lavorava. Janine aveva avuto un incidente alle dita, qualche giorno prima, e venne scartata durante la selezione, e destinata alla camera a gas. Ricorda allora, Liliana Segre: «Io che ero appena passata, che lavoravo tutti i giorni con lei, non mi sono voltata a dirle: Janine, ti voglio bene, fatti coraggio. Anche solo il nome sarebbe bastato. Io non mi son voltata. Non accettavo più i distacchi e fui orribile quel giorno e non ci fu poi un giorno in cui non mi ricordai di lei che, senza colpa, andava al gas. Il suo andare al gas, non diventare vecchia, madre, nonna, quella donna che sarebbe stata, è legata al mio aver perso ogni dignità ogni senso di quella persona che speravo di diventare… ero solo quella prigioniera che si era salvata e non gliene importava di nient’altro».
Svuotata, ridotta a numero, senza più segni di femminilità, Liliana Segre, con le altre prigioniere, viene costretta alla cosiddetta “marcia della morte” verso la Germania, nel gennaio del 1948. Macina chilometri e chilometri e sottolinea, ammonendo i giovani a non arrendersi mai: «Scegliete la vita, scegliete sempre la vita! Siamo fortissimi, gli adolescenti sono fortissimi, i più forti di tutti».
Infine, l’ultimo episodio, nel campo di Malchow, dove i nazisti, sapendo dell’incombente liberazione da parte dell’Armata Rossa, si spogliano della divisa, liberano i cani di cui si erano serviti per aggredire i prigionieri, e tentano la fuga. Liliana, si trova di fronte il capo del campo, vestito solo di un paio di mutande, la pistola abbandonata proprio di fronte a lei, come una tentazione. «Io non ero quella che sono oggi, mi ero nutrita di odio e di vendetta. Lasciando la mano sacra di mio padre, giorno dopo giorno, ero diventata quello che loro volevano: un essere insensibile che sognava odio e vendetta. Pensai, “adesso raccolgo questa pistola”, che avevo tanto visto usare, “e gli sparo”. Perché mi sembrava proprio il giusto finale. Fu un attimo, un attimo importantissimo, decisivo nella mia vita, in cui capii che mai io avrei potuto uccidere qualcuno. Che io non ero come il mio assassino. Non ho raccolto quella pistola. E da quel momento – “finisco sempre così”, commenta − sono diventata quella donna libera e quella donna di pace con cui ho convissuto fino ad adesso».
Scroscia l’applauso. Tutti si alzano in piedi. Sventolano farfalle gialle − «Siate farfalle che volano sopra il filo spinato» –, i giovani hanno raccolto il testimone, l’impegno a vivere per la pace, a trasmettere il suo messaggio di fratellanza, di speranza, contro ogni tipo di odio. Ma, a quanto sembra, anche tutti i 500 presenti.