Grandi restauri nel Museo dell’Opera del Duomo di Firenze
Due anni di un restauro visibile al pubblico nello splendido museo fiorentino diretto da Timothy Verdon. Sfilano i capolavori: le porte bronzee dorate di Lorenzo Ghiberti un tempo nel Battistero – ora sostituite da copie – dove il rinascimento si incontra con il tardogotico in un raffinato gioco di sentimenti e di oreficerie narrando le storie del Vecchio e Nuovo Testamento nei primi trent’anni del secolo XV. Ma non basta. Si è ricomposta la facciata antica inferiore del duomo ponendovi le statue rimaste: dal Bonifacio VIII solenne alla Madonna col bambino e due santi di Arnolfo di Cambio (sec. XIV) al capolavoro di Donatello: il san Giovanni evangelista che ispirerà il Mosè di Michelangelo.
Il museo conserva pure le statue un tempo sopra le porte del Battistero, come il marmo del Sansovino con il Battesimo di Cristo, e poi i rilievi e le statue del campanile: quelli del secolo XIV e quelle di Donatello e di Nanni di Bartolo. Firenze è città di scultori, come la Maddalena lignea di Donatello, di un pathos struggente.
Ma il gioiello del museo rimane la Pietà di Michelangelo, degli anni Cinquanta del Cinquecento. L’artista la scolpiva per la propria tomba, poi insoddisfatto per il marmo e infuriato, la spezzò lasciandola incompiuta e dandola all’amico Bandini.
Il gruppo marmoreo realizzato dall’artista settantenne su un unico blocco imperfetto più che una Pietà è una Deposizione.
Nicodemo in alto incappucciato è lo stesso vecchio scultore che ora depone il Cristo morto, ma dal corpo ancora di bellezza ellenistica tra le braccia della Maddalena e di Maria, che dà l’ultimo bacio al Figlio. La diversità dalla Pietà vaticana è notevole. A san Pietro Michelangelo, giovanissimo, aveva scolpito Maria che contempla Cristo morto adagiato nel suo grembo. Immagini di purezza classica, luminosamente perfette, un clima di speranza accesa in attesa della resurrezione. Dolore e mestizia, ma contenutissime.
Qui è Michelangelo stesso che pone la firma ad un capolavoro di spiritualità intima, al suo personale rapporto con il Cristo. Il gruppo infatti è frutto dell’amore per la passione del Messia, espresso in poesie appassionate e nei disegni del Crocifisso, primo fra tutti quello donato all’amica Vittoria Colonna col Cristo che grida l’abbandono tra angeli spaventati.
Michelangelo è lui a deporre il Messia tra le braccia della madre, lui è il fedele di ogni tempo che si sente così vicino al Cristo, compartecipe della sua morte, da donarlo a Maria.
Di fronte a questo gruppo gigantesco, pesante 2700 kg, collocato in una apposita tribuna come ultima opera prima dell’uscita dal museo, acme della galleria, si resta sbalorditi e impietriti per la bellezza spirituale che emana. Pulita per la prima volta dal secolo XVI, la statua ora è più luminosa, essendo stati rimossi i guasti del calco eseguito nel 1882, e appare davvero una guglia di dolore -amore di altissima levatura. Quattro personaggi, quattro espressioni di pathos e il Cristo adagiato con una sola gamba – l’altra non è scolpita -, le mani e le braccia ricollocate dall’allievo Tiberio Calcagni, rendono il capolavoro una delle vette dell’arte cristiana di sempre.
Michelangelo all’epoca lavorava nel dipingere la Cappella Paolina in Vaticano, ma di notte al lume di candela scolpiva questa Deposizione eucaristica, destinata a venir posta sopra l’altare nella sua cappella funebre.
Soffermarsi a lungo di fronte a questo marmo fa un gran bene: la statua parla, respira, spinge alla meditazione e dona una grandissima pace. La morte non è terrore, ma sentimento pieno di speranza.