Grandi mostre fiorentine

Una rassegna dedicata a Mattia Corvino, re d'Ungheria, fa luce sui fitti rapporti tra la capitale toscana e Buda nel corso del Quattrocento, mentre Palazzo Pitti ospita la tavola di Giorgio Vasari che ritrae "La Pazienza"
Palazzo Pitti a Firenze

Mattia Corvino

Nel 1490 moriva a Vienna, a 47 anni, e d’improvviso, Mattia Corvino, re d’Ungheria. Forse per molti  questa figura resta in ombra, almeno in Italia. È perciò assai opportuna la rassegna fiorentina su di lui, che si svolge – non a caso – nel Museo del Convento di San Marco, dove vissero l’Angelico e il Savonarola, in un edificio progettato da Michelozzo su incarico di Cosimo de’ Medici.

Il legame infatti fra Firenze e l’Ungheria, tra la città dominata dall’intellighenzia che faceva capo a Lorenzo il Magnifico – il poeta Poliziano, il filosofo Marsilio Ficino, tra gli altri – si era rivelato molto forte e assiduo durante l’intero secolo quindicesimo. Già Sigismondo di Lussemburgo, il monarca predecessore di Mattia, aveva voluto aprire il vasto regno ungherese agli influssi della nuova cultura rinascimentale. Un pittore come Masolino aveva interrotto il ciclo di affreschi nella chiesa del Carmine, lasciandoli al giovane Masaccio, proprio per recarsi in Ungheria. Da allora il rapporto Firenze-Buda non si era mai interrotto. Tant’è vero che quando Mattia morì, a Firenze si stava lavorando per lui ad uno splendido codice miniato, uno dei tanti che il re (come Lorenzo) amava e di cui la mostra offre degli esemplari che sono una gioia per gli occhi. Colori dorati, scintillio di tinte, eleganza di scrittura, scene storiche o bibliche ricche di dettagli, spazi aperti, rinascimentali.

Passeggiare tra questo mare d’oro e di azzurro è come entrare in un paradiso del colore e dell’armonia. Onnipresente il ritratto di Mattia, naso aquilino, capelli lunghi, sbarbato, spesso raffigurato all’antica, cioè cinto di una corona d’alloro come i grandi personaggi classici, i condottieri come Cesare o Alessandro. Del resto, Mattia era un guerriero formidabile, non solo un re umanista.

Questo rapporto tra Firenze e Buda – fatto di opere d’arte, di commerci, di politica – è veramente qualcosa di singolare e vale la pena scoprirlo, per rendersi conto di quanto la civiltà umanistica si sia diffusa a livello europeo in un modo per noi oggi impensabile.

Un’opera per tutte, il busto-ritratto di Beatrice d’Aragona, sposa di re Mattia il 10 dicembre 1476. Il busto marmoreo eseguito dal grande Francesco Laurana direttamente alla corte di Napoli è oggi privo del colore, ma rimane comunque affascinante  il volto assorto della giovane donna, l’eleganza dei tratti, la raffinata modestia della veste attillata e quell’aria pensosa che il marmo chiaroscurato, ombrato, riflette come specchio dell’anima. Dovette certo impressionare un uomo così sensibile alla bellezza come Mattia, che era stato educato dall’arcivescovo Velèz, uno dei massimi umanisti ungheresi.

A fine mostra si può davvero dire che da Firenze una nuova civiltà si è irradiata per l’Europa, e in questo caso nell’Ungheria, i cui rapporti con l’Italia non sono mai venuti meno. Basti pensare solo al grande amore per il Belpaese da parte del musicista Franz Liszt.

La rassegna permette un tuffo in un passato glorioso e di individuare il dialogo a distanza fra due grandi  personalità del Quattrocento: Lorenzo da una parte, con lo stuolo di artisti (Botticelli, Pollaiolo, Verrocchio  e amici) e Mattia con il suo gusto per il costruire, per la miniatura, per un’arte di estrema raffinatezza. È il Rinascimento misurato e  armonioso quello che unisce la lontana Buda a Firenze, due città entrambe solcate da fiumi e destinate ad essere centri culturali di prim’ordine.  Una mostra da non perdere. (Mattia Corvino e Firenze. Fino al 6/1, catalogo Giunti).

La Pazienza

È la virtù dei forti, si diceva un tempo. Ed oggi ce ne vuole davvero molta, dicono in tanti, se non tutti o quasi. Ben venga allora a Pitti la tavola di Giorgio Vasari, un tempo attribuita al Parmigianino, appartenente al cardinale Leopoldo de’ Medici.

L’idea era partita dal vescovo di Arezzo e ambasciatore di Cosimo I Bernardetto Minervetti, che ne chiese il dipinto a Vasari sul 1550. L’artista, cultore convinto di Michelangelo e della classicità, inventerà allora la figura di una prosperosa donna seminuda avvinta da una catena alla roccia, in attesa paziente che da un vaso sgorghi l’acqua che corroderà la pietra e le ridarà la libertà. Allegoria complessa, come d’uso all’epoca, ma assai eloquente, frutto della mente finissima del vescovo e della capacità vasariana di dar forma al simbolo.

Piacque così tanto che la usò anche il duca di Ferrara Ercole II in una sua "impresa" e ne fece dipingere una versione a Camillo Filippi per il suo studiolo detto “la Camera della Pazienza”, nella torre  di Santa Caterina nel castello  ferrarese.

Ma perché la "pazienza" è stata raffigurata poche volte nell’arte, a differenza di altre virtù come la fortezza o la temperanza o soprattutto la giustizia (si pensi al ciclo giottesco agli Scrovegni, a Padova)? E perché torna di moda nel Cinquecento? Il catalogo, edito da Sillabe, nei suoi saggi fornisce risposte persuasive. Noi ce ne permettiamo una: in un tempo drammatico quale era la metà del Cinquecento l’arte del “saper patire” assumeva una connotazione di cristianesimo riformato per i fedeli e un invito alle virtù morali ai regnanti, inducendoli al dominio di sé stessi, quale appunto la "pazienza" insegna.

Firenze, Pitti. Dal 26/11 al 5/1.

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