Il Grande Torino, 70 anni dopo, vive ancora
Fa un certo effetto sentire Andrea Belotti, classe 1993 e attuale capitano del Torino, scandire nel rispettoso silenzio di tutti i presenti i nomi dei 31 passeggeri dell’aereo che, il 4 maggio del 1949, ha tragicamente concluso il suo percorso sulla collina di Superga. Un’emozione palpabile anche per chi non assiste alla scena dal vivo. La voce sicura e stentorea dell’attaccante granata ha ricordato calciatori, tecnici, giornalisti e il personale aereo perito in una sciagura che ha cancellato una squadra mitica.
Da quel tremendo episodio però, nonostante tutto, lo squadrone granata ha continuato a vivere nel ricordo di tutti gli appassionati. Come scrisse Indro Montanelli qualche giorno dopo l’incidente, «gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto “in trasferta”». Parlare di Grande Torino significa, infatti, fare riferimento a una squadra che a cavallo della Seconda guerra mondiale ha rivoluzionato il calcio italiano. Sono stati 5 gli scudetti consecutivi: il primo acuto è arrivato nel 1943, seguito da quattro successi di fila tra 1946 e 1949. La pausa bellica, tra ‘43 e ’45, ha con molta probabilità interrotto un ciclo che avrebbe potuto essere ancora più ricco.
La squadra capitanata da Valentino Mazzola ha stabilito dei record indelebili. A quel Toro, infatti, spetta il maggior numero di partite casalinghe consecutive senza sconfitta (88), così come il maggior numero di marcature in campionato (125) e il più alto numero di reti realizzate in un match dall’istituzione del girone unico (10-0 nel derby con l’Alessandria). Quel gruppo dall’alone leggendario, poi, era legato a doppio filo alla storia del “quarto d’ora granata”: ai tre squilli di tromba, provenienti dalla tribuna di legno dello Stadio Filadelfia, capitan Mazzola si rimboccava le maniche, facendo segno ai compagni di alzare il ritmo per chiudere le partite in bilico. Un segno di superiorità e imbattibilità che, in un’epoca ancora ben lontana dall’attuale società delle immagini, veniva raccontato diventando così ancor più leggendario.
Il Grande Torino era diventato anche il simbolo dell’Italia che cominciava a rialzarsi dalle macerie della guerra: un gruppo di giocatori la cui fama travalicava i confini nazionali, tanto da essere invitato dal glorioso Benfica di Lisbona per una amichevole giocata il 3 maggio del 1949. Esattamente un giorno prima della sciagura, avvenuta proprio al rientro dalla capitale portoghese: a causa della pessima visibilità, il velivolo che trasportava squadra e giornalisti al seguito finì per schiantarsi contro il terrapieno posteriore della basilica di Superga. Un impatto dal quale non si salvò nessuno dei passeggeri.
Ogni anno il mondo granata si riunisce proprio sul luogo della tragedia, per celebrare il ricordo degli Invincibili. Anche il derby tra Juventus e Toro è stato anticipato di 24 ore, per permettere di commemorare al meglio i 70 anni dalla tragedia di Superga. Al mattino le cerimonie iniziano al Cimitero Monumentale del capoluogo granata, con la messa solenne prevista nel primo pomeriggio. Quindi il momento topico, con l’ascesa alla collina di Superga e la lettura dei nomi delle 31 vittime dello schianto. Un vero e proprio pellegrinaggio che molti tifosi vogliono compiere a piedi.
Un gesto che rinverdisce la memoria di una squadra imbattibile, entrata di diritto nella leggenda. «Essere capitano del Torino – ha dichiarato Andrea Belotti – è motivo d’orgoglio, soprattutto nella giornata del 4 maggio. Descrivere quello che si prova a Superga è difficile, si crea una magia particolare. Quando arriviamo – prosegue l’attaccante granata –, ci sono sempre migliaia di persone e davanti alla lapide c’è posto per pochissimi. La cosa che più colpisce è il silenzio religioso, il rispetto e la compostezza di tutti. La prima volta, due anni fa, i nomi non li ho letti, li ho proprio urlati. Volevo che mi sentissero fin lassù, nel cielo».