Grande successo del Verdi “francese”
Va bene che le opere di Wagner sono lunghe, ma Les vepres siciliennes verdiane non sono da meno. Cinque atti integrali con tanto di balletto – le Quattro Stagioni – occupano molto tempo. Ma quello era l’uso della “grande boutique” come Verdi ironicamente, ma non troppo, definiva l’Opèra di Parigi, con cui ebbe un rapporto difficile. Si capisce, per uno come lui che amava i tempi rapidi in musica e sulla scena, i mesi sfinenti di prove, gli allestimenti mastodontici della “grandeur” francese, un librettista star come Scribe, che lo guardava dall’alto in basso, era veramente una cosa insopportabile.
L’opera comunque fu scritta, venne rappresentata nel 1855 e accolta dal pubblico con entusiasmo. Verdi aveva dato quello che i parigini volevano da un italiano, da lui: melodie larghe e cantabili venute dal cuore – magari violini e violoncelli insieme –, situazioni drammatiche dai ritmi incandescenti, pezzi d’insieme, con il coro, di epica e struggente umanità. E pathos e patriottismo, tanto. Non si accorsero che il soggetto era antifrancese, i Vespri siciliani appunto, anche se la rivolta usciva solo nell’ultima scena del quinto atto. Verdi vi immetteva il tema a lui caro del conflitto padre-figlio (il tiranno francese Montfort che si scopre padre del congiurato Henri, innamorato della bella Hélène e amico del capo dei ribelli Procida), della nostalgia (la stupenda aria “O tu Palermo”) dell’umanità sofferente (finale del primo atto). Insieme a brillantezza, a un’orchestra ricca di sfumature, un passo avanti rispetto a Rigoletto Trovatore e Traviata, di cui pure si conservano tracce frequenti in quest’opera che non è un capolavoro assoluto, ma contiene molti momenti memorabili, fra cui la celebre sinfonia introduttiva.
C’è voluta la concertazione puntuale e la direzione raffinata di Daniele Gatti per dar luce alle tante bellezze orchestrali a cui ha risposto splendidamente il complesso romano, e a lasciar spazio, pur nel rigore, agli interpreti. Bisogna dire che Roberta Mantegna è stata una Elena mirabile nel lato virtuosistico, che l’Henri di John Osborne ha dominato con la purezza della sua voce tenorile, che Roberto Frontali è stato un baritono che ha dato spessore umano a Montfort insieme a Michele Pertusi come Procida e che il coro è stato all’altezza in un lavoro complesso e difficile.
Le scene di Richard Peduzzi, tra Carrà De Chirico e forse Giotto, hanno creato un ambiente scarno e senza tempo insieme ai costumi “trasversali” di Luis F. Carvalho. Così la regista Valentina Carrasco ha potuto presentare una versione molto personale dell’opera, accattivante in diversi momenti, talora tuttavia poco comprensibile e non in accordo con la musica (il balletto delle Stagioni) – cosa che si dovrebbe forse evitare –. L’insieme comunque ha funzionato.
Successo notevole anche per il coraggio di riproporre dopo anni l’operona francese di Verdi, rivisitata in modo nuovo dalla direzione di Gatti.