Goodbye, zio
«I am Salvatore». «Come scusi?». «Who is speaking? I am Salvatore, Salvatore!»...
«Che cosa? Ma da dove chiama?!». Una mano pronta a tappare la cornetta del telefono, mia madre lancia dall’ingresso alla cucina il suo s.o.s.: «Rosanna, vieni! che non ci capisco niente. È uno che parla inglese…». Capirai, come lo mastico io l’inglese; comunque tento con un timido «Hallo?», e l’interlocutore, incoraggiato, parte a razzo. Si informa prima se siamo noi, proprio noi, i parenti di Peppino, emigrato per qualche anno in America e poi tornato in Italia. «Yes…», mormoro, e mi sento improvvisamente un personaggio del racconto Dagli Appennini alle Ande.
Lui è Salvatore, il fratello del cugino del (boh… avrò capito bene "cugino"?) di chi? non capisco di chi. È venuto a Roma per un congresso, e oggi è libero… già perché oggi è Natale. «Ah», non riesco ad essere più entusiasta di tanto, nel confuso sforzo di afferrare un significato da ogni sua parola.«Could you come meet me? I am in Tritone Street». Misericordia.
Ci aspetta in un punto di Roma, per venire a pranzo da noi. Torno in cucina, dove l’odore dell’arrosto regna sovrano e comunico il tragico annuncio. Sarebbe stato un Natale-tranquillo, molto intimo, il nostro: solo io, mia madre e due zii. Dopo la morte di papà, andava così ogni anno. Ma ogni anno la magia, o meglio la grazia di questo giorno, riusciva a rinnovarsi nel calore di questi affetti semplici, nelle risate attorno alla tombola o al solito torrone, tagliato a fatica. Fatto sta che nel ballo bisogna ballare. «Andiamo!», si decide mia madre, cominciando come sempre a cercare le chiavi della macchina per tutta casa.
Salvatore, zio Salvatore – proviamo a chiamarlo così – ci aspetta, solo, accanto a una fontanella, in una Roma deserta, tutta seduta a tavola. È albino, completamente bianchi i capelli e le ciglia, rossi invece i pomelli delle guance. Avrà più di sessant’anni. Grandi abbracci e pacche all’americana, e in un batter d’occhio siamo a casa, anche noi imbarcati con lui nel pranzo natalizio.
Alle spalle dello zio d’America, occhieggiano a intermittenza le lucine del presepe e Gesù bambino mi pare si diverta a seguire ogni nostra mossa. È un pensiero strano questo, che Gesù possa ridere tra sé e sé, ma all’improvviso mi fa gustare tutto l’assurdo e l’imbarazzo dì questo Natale. Eh sì… perché il dubbio, sottile, c’è: « Ma sarà proprio un nostro parente, questo sconosciuto che ora attacca con travolgente entusiasmo il secondo grosso cosciotto del tacchino? E se non fosse?». Lancio di straforo un’altra occhiata all’Infante di cera: «E se non fosse? che differenza c’è?» mi rimbalza, birichino, la domanda, mettendomi a tacere.
Sono io ormai – per quel poco d’inglese che riesco a farfugliare – il perno di tutto. Su di me zio Salvatore da qualche ora ha preso a sfogare lunghissimi racconti d’oltreoceano, che si interrompono
ogni tanto – tragicamente – con un punto di domanda. Su di me le tacite pressioni di mamma e degli zii per capire qualcosa di più sulla sua identità. Finché si arriva alla prova del fuoco. Un vecchio album di foto con quegli unici quattro parenti d’America che tutti in casa conosciamo bene. Tengo d’occhio lo "zio". Sembra tranquillo, il compito di apporre le didascalie ad ogni foto è affidato a lui. E – me ne rendo conto – a me. La mia traduzione sfaterà oppure oscurerà i nostri dubbi.
A momenti ho la netta sensazione che Salvatore sia sincero, riconosca davvero, commenti con lontani episodi. E allora sforno rassicuranti spiegazioni ai miei, aggiungendo gratuiti particolari. «Che importa se non fosse?». Complici ormai, tutti i personaggi del presepe mi incoraggiano. Loro – dalla donnetta con le oche, al pastore con la testa incollata – l’avrebbero accettato questo zio, vero o falso, e avrebbero diviso con lui cacio e latte, nello splendore palpitante di quella notte.
E’ così che – per interrompere l’imbarazzante “prova” – mi balena in mente l’idea di mettermi al piano a suonare per tutti: Stille Nacht, Tu scendi dalle stelle e naturalmente Jingle bell, che permette l’assolo di zio Salvatore col suo vocione baritonale. E attorno allo spartito è finalmente Natale, si ride delle stonature, si dà fiato alle casse toraciche. Senza pensare più alla voce del sangue, tanto è più vera in questo momento per ognuno quell’altra voce venuta miracolosamente a ripeterci ancora una volta di amare ogni uomo.
«Good bye zio!». L’ultimo abbraccio è sulle scale di casa con qualche lacrima tra le ciglia bianche. E non l’abbiamo più visto. Ma, si sa, l’America è lontana…
Rosanna